Corriere della Sera, 12 dicembre 2015
Nuove accuse a due carabinieri per la morte di Stefano Cucchi
Ci sono voluti sei anni per scoprire che i nomi di due carabinieri che parteciparono all’arresto di Stefano Cucchi, in abiti borghesi, furono taciuti negli atti ufficiali, tanto che nessuno li aveva mai cercati prima; per accertare che il 31enne romano morto dopo una settimana di detenzione era stato portato in una caserma per essere fotosegnalato, come si fa per ogni fermato, ma che quell’operazione non avvenne; per appurare che Cucchi si ribellò e tentò di aggredire uno dei carabinieri, e che per reazione fu picchiato con forza. Al punto che la ex moglie di uno dei militari ricorda ancora oggi di quando il marito le raccontava «gliene abbiamo date tante a quel “drogato di merda”».
Tutto questo è stato scoperto a sei anni di distanza, grazie a una minuziosa indagine della Procura di Roma e della Squadra mobile, condotta con uno spiegamento di mezzi pari a quelli di un’inchiesta antimafia. Arrivando a concludere, scrivono il procuratore Giuseppe Pignatone e il sostituto Giovanni Musarò, che «nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 Stefano Cucchi fu sottoposto a un violentissimo pestaggio da parte dei carabinieri appartenenti al comando stazione Appia»; e che subito dopo «fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata ad ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili».
Gli indagati per le lesioni restano tre, i carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffele D’Alessandro e Francesco Tedesco (rispettivamente 36, 30 e 34 anni d’età; poco meno di quella che avrebbe Cucchi), altri due risponderanno di falsa testimonianza, ma contemporaneamente si apre un’altra partita: la richiesta di incidente probatorio per effettuare una nuova perizia medica, al fine di accertare «la natura e l’effettiva portata delle lesioni», in modo da verificare l’eventuale «nesso di causalità (cioè un qualche collegamento, ndr ) con l’evento morte». In tal caso l’imputazione si aggreverebbe, la ghigliottina prossima della prescrizione si allontanerebbe, ma tutto ciò appartiene al futuro. Il passato e il presente sono un’inchiesta e un processo (che la prossima settimana approderà in Cassazione) dove gli agenti della polizia penitenziaria sono stati assolti, mentre solo adesso emergono le possibili responsabilità di carabinieri che neppure comparivano nelle carte.
È stato un detenuto chiuso nel carcere di Regina Coeli insieme a Cucchi a riferire (nel 2014) che Stefano gli aveva confidato di essere stato «picchiato dai carabinieri nella prima caserma da cui era transitato la notte dell’arresto; aggiunse che era stato picchiato da due in borghese mentre un terzo, in divisa, diceva agli altri due di smetterla».
Da questa e altre testimonianze portate dai familiari di Cucchi è partita l’inchiesta bis che – sostiene la Procura – ha trovato solo conferme. Dagli stessi carabinieri prima testimoni e poi inquisiti, nelle intercettazioni telefoniche e ambientali in cui cercavano di concordare le versioni («me li ricordo che lo portammo a fare il fotosegnalamento... si sbattette... ti dette uno schiaffo in faccia a te e si buttò a terra...»; «mi raccomando non dire puttanate... che qua scoppia una bomba»; «ci dobbiamo vedere... pariamoci il culo»), ma anche dagli atti ufficiali: la resistenza di Cucchi e il fotosegnalamento mancato non risultano da nessuna parte. Anzi, quel che i carabinieri avevano cominciato a scrivere è stato cancellato con il bianchetto e sostituito con i dati di un’operazione successiva. E diversi particolari riferiti nelle relazioni di servizio non corrispondono al vero.
Nonostante le precauzioni di non parlare al telefono, le conversazioni tra il carabiniere D’Alessandro e la ex moglie svelano ciò che il militare le aveva confessato, all’epoca dei fatti o in seguito: «Hai raccontato di quanto vi eravate divertiti a picchiare “quel drogato di merda”... lo hai raccontato a tanta gente di quello che hai fatto». Frasi confermate dalla donna nell’interrogatorio davanti al pubblico ministero («mi confidò che la notte dell’arresto Stefano Cucchi era stato pestato da lui e da altri colleghi di cui non mi ha fatto il nome»), dal suo nuovo convivente e dalla madre di lei.
Altri carabinieri che lo portarono in tribunale la mattina seguente hanno riferito che le condizioni di Cucchi «facevano impressione, io non ho mai visto niente del genere in vita mia», e che «era evidente che era stato pestato prima che lo prendessimo in consegna noi». Ma il muro di omertà ha retto per sei lunghi anni, mentre altri venivano processati. Adesso emerge un’altra verità, sebbene dopo tanto tempo non sia prevedibile a quali risultati porterà.