Corriere della Sera, 12 dicembre 2015
L’addio polemico di Guariniello
Comunque la si pensi sul suo conto, sarà ben difficile trovare un altro Raffaele Guariniello. L’esemplare è unico, un magistrato che unisce l’amore per la Cassazione e lo spirito di Don Chisciotte, capace di partire per inchieste anche destinate alla sconfitta, «ma in fondo l’importante non è la condanna dell’imputato, quel che conta è eliminare la patologia, incidere sui problemi della nostra vita, dare una mano per renderla migliore».
Il suo metodo è stato analizzato e pure criticato in lungo e in largo, si sono sprecate le ironie sul fatto che in quarant’anni abbia indagato sulle morti sul lavoro e sulle mozzarelle blu, sulla tragedia dell’amianto e sulla farina di castagne nociva, sull’inchiostro dei tatuaggi, le caraffe filtranti eccetera. Ma pochi hanno sottolineato come il presunto esibizionismo giudiziario del «pretore globale» sia stato anche lo strumento per far capire all’opinione pubblica e soprattutto alla sua categoria che un processo sulle morti bianche e la tutela delle fasce cosidette deboli deve avere la stessa dignità di una inchiesta sulla mafia o sulla corruzione. E il primo a pagare consapevolmente il prezzo di una vita spesa ad occuparsi di argomenti ritenuti a torto minori da molti suoi colleghi è stato lui, che con la consueta ironia, si definisce spesso campione nazionale di mancata carriera, dal 1969 a oggi mai uno scatto. «Se permette, un record».
L’annuncio dato ieri durante un colloquio con la stampa, uno degli ultimi date le draconiane disposizioni all’ufficio impartite dal procuratore Armando Spataro, molto cambiato dai tempi in cui era pubblico ministero a Milano, chiude così un’epoca e conferma la natura «strana» di magistrato convinto che le toghe «debbano fare solo il loro lavoro, nient’altro. Niente politica, niente proclami, niente correnti». Guariniello si dimette, senza aspettare il 31 dicembre, il giorno della pensione, e soprattutto senza aggrapparsi ai ricorsi al consiglio di Stato fatti da alcuni magistrati nella sua stessa situazione, che gli avrebbero garantito almeno altri otto mesi al suo posto. «La cosiddetta proroga non fa per me, e non sono d’accordo con questa iniziativa. È una questione che nessuno sa come verrà risolta, mentre noi siamo i primi che dobbiamo dare esempio di limpidezza e serenità, senza aggrapparci ai cavilli. Quando è il momento, si deve andare, e basta».
Ci sarà tempo per i bilanci, ma certo l’addio poteva essere più sereno, e non solo per i recenti «affiancamenti» decisi da Spataro su alcune sue inchieste al fine di verificarne la competenza territoriale, un modo per metterlo sotto tutela che gran parte dell’ufficio torinese ha vissuto come una inutile umiliazione in zona Cesarini inflitta a un magistrato che ha sempre agito così, dal primo giorno. «Per carità, non c’entra nulla, ma davvero. La lettera di dimissioni era pronta da tempo, e il problema, se vogliamo definirlo tale, è generale, non riguarda certo i singoli casi. Ho cominciato a pensarci in tempi non sospetti». Lo spartiacque è stato l’ entrata in vigore nel 2009 della decennalità, ovvero l’introduzione del criterio che impone ai magistrati un termine massimo di permanenza nello stesso gruppo di lavoro. «La ritengo una riforma deleteria, che nega la specializzazione in un mondo sempre più specializzato. Ho perso la “mia” squadra, e in quel momento ho preso a riflettere su quanto la macchina della giustizia sia ormai scricchiolante, schiacciata dalla troppa burocrazia, volta più all’apparire che all’essere».
L’ultimo passo viene fatto nello stile dell’uomo, un anticipo della pensione di pochi giorni, per mandare un segnale minimo, una polemica appena accennata. «La giustizia italiana è in grande difficoltà. Il nostro mondo è stanco, sempre più rassegnato ad accettare la carenza cronica di organico e di personale e le vane promesse di future risorse che invece continuano a mancare. Siamo intimiditi dalla disaffezione che sentiamo nei nostri confronti, figlia anche dei nostri errori. Spero di sbagliarmi. Ma io ho bisogno di sentire quell’entusiasmo che ho sempre provato dal momento del mio ingresso nella magistratura. E purtroppo ormai ho l’impressione di dover cercare altrove».
Parlare del futuro professionale del 74enne Guariniello, che ha incassato un ringraziamento non banale da parte del Guardasigilli Andrea Orlando, può anche sembrare un paradosso. Eppure è difficile pensarlo a riposo, il magistrato che si era fatto dare dai custodi le chiavi del palazzo di Giustizia per lavorare anche di notte. «Mi sento in gran forma. Ho ricevuto alcune proposte per mettere a frutto la mia esperienza, che purtroppo è tanta. Mi cercherò un contesto in cui possa esprimere la mia voglia di fare. Ho i miei rimpianti, come tutti, ma sono comunque consapevole di aver vissuto in un periodo molto positivo per la magistratura italiana. Spero di avere fatto cose importanti per i deboli e per le persone meno tutelate dalla società, e sono grato per avere avuto la possibilità di farlo». Mancherà. E non solo ai giornalisti, purtroppo.