Origami, 10 dicembre 2015
L’orgoglio di non aver lavorato in tutta la vita nemmeno un giorno
Posso dire non senza giustificato orgoglio di non aver lavorato in tutta la mia vita un giorno che è uno. Sì, la mia prima Marchetta me l’hanno appiccicata che ancora non avevo diciott’anni, sì, ne avevo ventidue che il mio primo stipendio da impiegato Olivetti mi metteva in tasca più di quanto mio padre portava a casa dopo trent’anni di carriera operaia, sì, ho fatto questo e quello e non sono mai stato fermo un minuto e mi sono sempre dovuto guadagnare il pane e le sigarette per conto mio, ma non è che avessi mai lavorato, lavorato davvero. Ho svolto attività, questo sì: svariate attività che hanno avuto risvolti produttivi, non sempre, e generato reddito sotto forma di emolumento, salario, compenso, premio, quanto dovuto, percentuale, stipendio, questo sempre. Ora come ora, ad esempio, mi guadagno da vivere cedendo i diritti di sfruttamento della mia opera di ingegno come da art. 53 del testo unico imposta diretta. Fosse ancora vivo mio padre non se ne saprebbe capacitare. Dico che non ho mai lavorato perché mi è sempre piaciuto fare quello che facevo e non ho mai faticato a farlo. Non che non abbia sudato, d’estate si suda anche su una tastiera di pc, non che non mi sia spezzato la schiena, me la sono rotta sotto una pompa da quattro quintali che cercavo di vendere, ma la vera fatica, l’unica insopportabile, è l’alienazione del proprio lavoro, esattamente come diceva il vecchio cattivo maestro. Io ho sempre venduto la mia opera a chi volevo io e ho smesso di farlo quando ero stufo di darla via. Per vivere a questo modo ho avuto bisogno di molta fortuna, e la mia fortuna è stata diventare adulto in un’epoca di grande mobilità, molta spesa e diuturna rivolta sociale. Il risvolto della libertà è la precarietà, che in tempi movimentati è la condizione ideale per crescere e imparare. Anche se in questi tempi smorti sono senza pensione.