Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  dicembre 11 Venerdì calendario

L’arte di raccontare i cattivi. Intervista a Stefano Sollima

Stefano Sollima è uno strano uomo di spettacolo. Regista di grande successo, non si considera un genio della macchina da presa, ma si compiace di essere riconosciuto come abile artigiano del cinema di genere. Un genere che non ha ancora un nome preciso, forse noir, forse gangster story, ma che ha dato a Sollima la fama di straordinario innovatore di stili e linguaggi. Con la serie “Gomorra” ha fatto invecchiare di colpo tutte le fiction italiane, con l’ultimo film, “Suburra”, ha raccontato il potere criminale della capitale con la spietata crudezza di uno “Scarface” italiano.
Del resto, il cinema ce l’ha nel Dna (suo padre Sergio è stato un regista di western e sceneggiati televisivi) e, dopo averlo coltivato in un lungo apprendistato tra reportage di guerra e piccole prove d’autore, oggi Sollima sta sulla scena con la soddisfazione genuina di chi va realizzando esattamente ciò che gli piace: saghe disturbanti popolate da personaggi che si divorano l’un l’altro senza consolazione né redenzione.
Come mai nelle sue storie non c’è mai traccia del bene, né una via di salvezza da tutto quel male?
«Perché sono racconti sul potere e sul crimine dove il bene non è di casa».
Neanche un sussulto di coscienza, un cattivo che si pente. A che cosa si aggrappa lo spettatore smarrito?
«A se stesso, al proprio contrappunto morale. Non ha bisogno che gli venga ribadito da altri. Non ho mai sopportato la presenza dell’autore che ti prende per mano e ti guida sulla giusta via. Quello che io confeziono è uno spettacolo possibilmente intelligente su una fetta di realtà, anche brutale».
Qualcuno l’ha accusata di dare così un’immagine negativa di Napoli, di Roma, dell’intero paese.
«A partire da Andreotti, che se la prendeva con il neorealismo, questa è una stupidaggine tutta italiana. Alemanno, allora sindaco, è arrivato persino a dire che la situazione a Roma era degenerata per emulazione di “Romanzo criminale”. E pensare che è tutto il contrario!».
Il contrario?
«Sì. Nei miei viaggi all’estero ho constatato che questi lavori rimettono al centro dell’attenzione la cultura italiana, i nostri attori e un’industria cinematografica in grado di trovare spazio nel mercato internazionale. La Scampia di “Gomorra” non è la solita cartolina napoletana, ma è una periferia degradata come in tante altre metropoli. Del resto io ce la metto tutta a immaginare prodotti adatti a essere esportati».
Come?
«Pensando da spettatore, con un immaginario costruito sui grandi del passato. Per “Gomorra” ho anche usato una formula tutta americana, girando una parte delle puntate e supervisionando quelle affidate a altri due registi. Per “Suburra” mi sono ispirato alle classiche gangster story. Insomma faccio dei local che puntano al global».
Non è mai stato tentato dal cinema d’autore, quello che prima del successo dà il prestigio?
«Beh, ho fatto alcuni corti. In uno, un ragazzo non riesce a trattenere il prurito e si gratta fino a scarnificarsi un braccio. In un altro, il protagonista ha delle cerniere lampo sul corpo, tipo l’Eta Beta del fumetto, dove tiene tutto quello che gli serve per vestirsi, ma si trova a lottare con un topo che gli si è infilato sotto pelle».
Sono due idee tormentose che non le somigliano.
«Ma erano girate con leggerezza. E poi ho scelto presto di dedicarmi a quel cinema che mi aveva illuminato di colpo, a 13 anni».
Racconti.
«Guardavo un western e ho capito improvvisamente che un film non era altro che la ricomposizione, il puzzle riuscito, di tanti pezzi che avevo visto da vicino in tutta l’infanzia. Mia madre era sceneggiatrice, mio padre regista. Sono cresciuto sulle ginocchia di persone che ideavano film mentre io ascoltavo distrattamente; sul set vedevo ripetere una scena tante volte e mi annoiavo; in sala montaggio guardavo spezzettare e ricucire pellicole. Ma quel giorno ho messo insieme i brandelli e nel silenzio della sala ho gridato: “Ho capito!"».
Ha mai pensato che suo padre, Sergio Sollima, con “Sandokan” ha fatto per la televisione degli anni Settanta quello che lei ha fatto oggi con “Gomorra”? Entrambi avete scompaginato la fiction tradizionale delle due epoche.
«Che bella cosa che mi suggerisce! Come ne sarebbe contento Sergio!».
Suo padre è morto pochi mesi fa. Ha fatto in tempo a godere del suo successo?
«Solo in parte. Ha visto “Romanzo criminale”, ma quando è andato in onda “Gomorra”, se ne stava già andando lentamente, mentre io cercavo di afferrare i suoi ultimi momenti coscienti. Mia madre è morta che avevo nove anni, ma non ci si allena alle perdite. Sergio è stato per me padre, madre, suocera, nonna, fratello maggiore».
E non maestro di cinema?
«Certo, non ho mai frequentato una scuola di regia. Quello che so l’ho assimilato da lui. Da piccolo ero sempre sul set, da adolescente lo raggiungevo in tutti i periodi di vacanza. Per il resto del tempo ero in collegio, a soffrire la mancanza di normalità domestica. Ho avuto un’infanzia felice e una giovinezza disturbata. A vent’anni ero già vecchio. Ma almeno ho imparato a cavarmela subito da solo, andando in giro per il mondo».
Alla ventura?
«Macché, lavorando prima come fonico, poi come cameraman per un’agenzia che vendeva le news a canali importanti come Cnn e Nbc e mi faceva guadagnare molti soldi. Ho seguito la prima Guerra del Golfo, sono stato a Gerusalemme mentre bombardavano, poi in Kosovo. Un’esperienza durata sette anni».
Si sa che all’epoca era comunista...
«In collegio avevo il poster di Che Guevara e quello di uno zombi de “La notte dei morti viventi”. Sono stato anche iscritto alla Federazione giovanile del Pci. E ancora oggi sono un uomo di sinistra».
Quale?
«La mia. Non ci sono più le appartenenze».
E com’è la sua sinistra?
«Più che una fede politica, è una visione del mondo, una specie di esercizio intellettuale per trovare il punto di vista del più debole».
Nei suoi film non ce n’è segno.
«Me ne guardo bene di farla trasparire. Forse c’è qualcosa nell’ispirazione iniziale ma poi mi concentro sullo spettacolo. Mio padre sì che faceva un cinema politico. Sempre, anche nei suoi tanti spaghetti western, c’era un qualche conflitto tra sfruttati e sfruttatori, magari soltanto un peone messicano che combatteva contro i pistoleri nordamericani. Ma erano altri tempi e la politica riempiva ancora la vita».
Ora anche lei è padre. Come se la cava?
«Faccio da madre, suocera, fratello maggiore, ecc. Insomma tendo al noioso. Ma ci metto in più una gelosia feroce per l’unità familiare, forse perché non ne ho potuto godere da ragazzo. Ne ho fatto un modello e sono orgoglioso di viverla ora con mia moglie e i miei figli».
La seconda serie di “Gomorra” uscirà fra qualche mese e noi, rimasti col fiato sospeso dal finale della prima, non sappiamo niente dei destini di Ciro e Don Pietro Savastano. Ci dà qualche indizio?
«Neanche sotto tortura».
Sentiamo allora i prossimi progetti.
«Cinema e ancora tv. Ma tutto in alto mare. Un solo progetto è già concreto: la serie tratta da “Zero Zero Zero”, di Roberto Saviano con cui sto scrivendo il soggetto. Ho fatto qualche sopralluogo e sto pensando agli attori».
Anche qui i protagonisti, messicani, colombiani o italiani, saranno irrimediabilmente cattivi?
«Peggio: saranno globalmente cattivi!».