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 2015  dicembre 11 Venerdì calendario

Milano e la nuova geografia del lavoro

I risultati dell’Invalsi, il sistema nazionale di valutazione degli allievi delle scuole italiane, contengono alcuni risultati scioccanti. I punteggi registrati nelle seconde e nelle quinte elementari sono già radicalmente diversi in base alla regione d’Italia in cui crescono i bambini. Ai sette anni di età, fra gli scolari del Sud e del Nord Italia si è già aperto uno scarto nel controllo della lingua o nella capacità matematica che probabilmente è destinato a non chiudersi più. Questo ovviamente non riguarda i singoli, che con l’impegno e il talento possono colmare lo svantaggio ereditato nella famiglia di nascita o nel luogo di origine.
Ma i risultati dell’Invalsi sono peggio, perché riguardano le medie. Magari con degli errori, catturano i grandi numeri. Dicono che un bambino siciliano di sette anni ha una capacità in italiano o in matematica di quasi il 20% inferiore a un coetaneo della Lombardia o di quasi il 25% inferiore a un bambino di Trento.
Ritardi come questi fanno pensare agli studi con i quali James Heckman ha vinto il premio Nobel per l’economia. Questo studioso di Chicago ha seguito centinaia di ragazzi, dai pochi mesi di vita fino a vent’anni e poi nel pieno della loro esistenza di adulti. Heckman mostra che già a tre anni i figli di genitori laureati e professionisti usano più parole dei figli di chi non ha finito l’università; questi ultimi hanno più capacità intellettuali dei figli di chi ha fatto solo le superiori mentre già ai tre anni, o prima, il figlio di un disoccupato parla peggio ed è in media meno percettivo di tutti gli altri. A quell’età il figlio di un professionista laureato è già tre volte più “intelligente” di lui.
Grandi differenze. Questo scarto all’inizio della vita di solito non si recupera più. Chi risulta indietro a tre anni, a trenta ha più probabilità di avere problemi con la giustizia, a quaranta di essere disoccupato e a cinquanta di essere obeso o alcolista. Ci pensavo l’altro giorno durante l’evento di “Italia digitale” in piazza Gae Aulenti a Milano. Quella piazza è una meraviglia architettonica della nuova Milano, costruita in tempi brevissimi. Il pubblico era percettivo, competente, attento, sobriamente elegante. Forse da bambini molti di quei partecipanti erano già nella parte alta della distribuzione dell’Invalsi? Li guardavo e mi chiedevo se è possibile che anche l’Italia sia diventata una società così dura, dove l’origine determina fin dai primi anni di età una parte fondamentale del futuro di ciascuno. Poi mi sono accorto che, naturalmente, non tutti gli accenti erano milanesi. C’era il romano, c’erano soprattutto inflessioni meridionali. C’erano molti di coloro che hanno battuto le probabilità assegnate loro dalle medie regionali dell’Invalsi per essere qui.
Enrico Moretti dell’Università della California a Berkeley con “La nuova geografia del lavoro” parla di qualcosa di simile guardando al modello di Palo Alto e di San Francisco per spiegare la sua idea che le persone più brillanti e intraprendenti tendono a fare “densità”. Si raccolgono spesso a vivere tutte in una stessa località dove troveranno altri come loro, altri ancora che cercano persone di quel tipo per investire o cercare un partner in affari. È appunto la “nuova geografia del lavoro”, altamente diseguale, capace di svuotare di talento certe aree a vantaggio di altre, ma efficace.
Mi chiedo se Milano non stia diventando questo per l’Italia, con un’intensità mai vista prima nella storia pur ricca di migrazioni dello Stato unitario: la città a cui affluisce gran parte del talento e della capacità innovativa del Paese, perché lì le persone di quel tipo moltiplicano il loro potenziale stando a contatto con i loro simili. Nelle scienze, nella moda e nel design, nelle tecnologie. È appunto una dinamica crudele, che ha le sue radici nelle diseguaglianze, le accentua, ma probabilmente genera anche progresso e innovazione. Non ho idea se sia giusto così. Sospetto solo che anche in Italia, con Milano al centro, stia succedendo.