il Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2015
A vent’anni dalla sera in cui Bonvì fu investito da un ubriaco. In memoria del maestro indiscusso delle strisce a fumetti
Quelli come lui dovrebbero vivere cent’anni. Forse a Bonvi non sarebbe piaciuta una frase tanto retorica. Eppure, che la sua vita carica di storie sia finita a soli 54 anni, è un caso di cosmica ingiustizia. Sono passati vent’anni dalla sera in cui Franco Bonvicini è stato investito mentre attraversava via Bentini, periferia nord di Bologna. L’amico Francesco Guccini l’aveva raccontata tra le pagine di Un altro giorno è andato (Giunti, 1999): “Ascoltando distrattamente il telegiornale, ci parve di sentire che era morto il disegnatore Bonvi. Non volevamo crederci.
Ma come? Stava benissimo, per quanto potesse star bene uno come lui. La sua morte è stata un vero e proprio scherzo del destino. Stava andando al Roxy Bar, da Red Ronnie. Non prendeva quasi mai la macchina. Quella sera invece era insolitamente sobrio e quindi aveva deciso di prendere l’auto. Si fermò per chiedere indicazioni e fu investito da un ubriaco. Una nemesi”.
L’ironico “insolitamente sobrio” di Guccini, detto con il sorriso di chi sta ancora scherzando con un amico, è parte della mitologia di Bonvi consegnata ai posteri, che lo vuole uomo sempre sopra le righe: nel disegnare, nel tirar tardi, nel vivere. Come quando si candidò quasi controvoglia alle elezioni cittadine bolognesi nelle file del Pci e venne eletto a furor di popolo, per poi rassegnare le dimissioni cantando L’estate sta finendo dei Righeira in consiglio comunale. Ma non prima di aver proposto la costruzione di una moschea, per migliorare l’integrazione e il dialogo con i musulmani: ai tempi sembrava una proposta folle, con il senno di poi era lungimirante.
Passava per un tipo solitario e schivo, Bonvi, eppure molti amici lo ricordano. C’è il già citato Guccini, che con lui si era inventato l’eccezionale serie Storie dello spazio profondo: fantascienza retrofuturistica in cui convivono astronavi e dischi in vinile, protagonisti un robot pedante e un giovane capitano affascinante e cinico. “A lui piaceva disegnarsi così, molto bello e un po’ maledetto. A quel punto a me non restava che il ruolo nel robot”, dice Guccini. “Non sono altro che le nostre storie di quegli anni, tradotte in chiave fantascientifica”. Dall’underground emiliano allo spazio profondo, prima di Star Wars, C-3PO e Han Solo.
C’è Guido de Maria, che aveva introdotto Bonvi al mondo dell’animazione, e poi creato con lui Nick Carter per Gulp! I fumetti in Tv, avanguardia Rai dei primi Settanta. Fu Guido a portare il mangianastri che suonò Non, Je ne regrette rien di Edith Piaf al funerale di Bonvi. C’è Silver, l’allievo autore di Lupo Alberto, un altro pezzo di storia del fumetto. Era giunto a bottega da Bonvi a 17 anni, grazie a una professoressa di arte. “Ma Bonvi amava raccontare altre versioni del mio arrivo”, chiosa. “Diceva di avermi offerto asilo nel portone di casa sua mentre stavo scappando dalla polizia dopo una manifestazione. Diceva di avermi salvato”.
Fiction sovrapposta alla vita, perché con Bonvi c’era sempre tempo per raccontare una storia. Che fosse il più divertente possibile, però. Le storie rimangono, oggi. Giusto così. Che Bonvi sia stato un maestro indiscusso della striscia a fumetti è un dato acquisito. Nessuno nel nostro paese è arrivato a padroneggiare in modo tanto perfetto la forma di fumetto più essenziale e allo stesso tempo complessa. Era stato lui a introdurre in Italia quel formato di origine americana, per trasformarlo a sua immagine: riempiva le vignette con matite, chine, retini e con un umorismo cinico, irresistibile. A volte volando alto, altre sfornando battute da caserma. Tra i ranghi delle Strumtruppen non erano fuori posto.
Rimane a Modena il Bonvi Parken, a lui dedicato e popolato dai suoi personaggi. E a Bologna una mostra che aprirà martedì 15 alla Biblioteca Salaborsa: esposte per la prima volta le tavole delle serie Incubi di provincia e Leggende urbane, tra le ultime realizzate da Bonvi. L’ha curata sua figlia, architetto, dando forma a una installazione che ricorda la pianta di una città. “Il sasso l’ha lanciato l’anno scorso il direttore di Radio Rai Nicola Sinisi, che sedette con mio padre in quel consiglio comunale di tanti anni fa”, racconta Sofia Bonvicini. “Qui vorrei si mettesse in luce una parte meno conosciuta della sua opera.
Lui era noto come fumettista, ma credo desiderasse essere riconosciuto come autore con la A maiuscola. Ai tempi era difficile, se facevi fumetti. Di più, Bonvi era un maker, per usare un termine moderno: sperimentava nuovi tipi di comunicazione e faceva tutto da solo, in maniera artigianale”. Adesso questi racconti potrebbero essere chiamati graphic novel. “Erano storie che lo affascinavano”, continua Sofia, “raccoglieva ritagli di giornale con notizie strane e curiose. Magari vere, magari no”. Storie, come sempre, tante da riempire una vita. E migliorare le esistenze dei molti che le hanno lette, nell’ultimo mezzo secolo. Fidatevi: la Bonvi-terapia è ancora efficace.