il Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2015
Giorgio Meletti racconta come la Poste Italiane uccidono l’e-commerce. Una lettera al Dottor Caio
Gentile Francesco Caio, lei è un profeta dell’innovazione fin da quando, vent’anni fa, come fondatore di Omnitel ci fece provare il primo brivido della liberazione telefonica dal monopolio di Telecom Italia. Più recentemente è stato scelto dall’ex premier Enrico Letta come commissario per l’attuazione dell’Agenda digitale, e subito dopo Matteo Renzi le ha affidato la guida e la quotazione in Borsa di Poste Italiane. È dunque la persona migliore da interrogare sulla corrispondenza di parole e fatti.
Le parole sanno essere bellissime. Due secoli fa iniziammo con “progresso” che esprimeva la marcia dell’Occidente verso un futuro felice e prospero. Seguirono modernizzazione, rinnovamento che poi si modernizzò in innovazione, e svariate rivoluzioni: elettronica, microelettronica, informatica, telematica, internettiana. Questo è il decennio dell’aggettivo “digitale”, con cui lei ci perseguita da anni.
I fatti sanno essere bruttissimi. Lei sostiene che l’e-commerce è “uno strumento eccezionale per risparmiare denaro, tempo e di conseguenza aumentare la produttività”. E che a frenarne lo sviluppo in Italia è la scarsa diffusione dei sistemi di pagamento online, la bassa alfabetizzazione della popolazione, l’insufficiente disponibilità di buoni collegamenti Internet, in gergo Banda larga. Temo che lei si sia dimenticato di dire che il maggior freno all’e-commerce è proprio l’azienda che dirige, Poste Italiane.
Ho fatto personalmente la prova, comprando un libro su Amazon. Il libro è quell’oggetto composto da una serie di fogli sovrapposti, rilegati o incollati. Va dunque trasportato, come tutte le cose che si commerciano elettronicamente. Non c’è e-commerce senza logistica, non c’è digitale senza analogico.
Il libro è arrivato danneggiato. Con pochi e semplici colpi di mouse ho ottenuto da Amazon l’immediato invio di una nuova copia, impegnandomi a rispedire quella danneggiata. Ed è qui che l’e-commerce in salsa italiana diventa un inferno. L’ufficio di Poste italiane del centro di Roma a cui mi sono rivolto per la consegna del pacco mi ha inflitto una coda di 48 minuti, durante i quali ho notato che gli afflitti della fila ingannavano l’attesa scambiandosi notizie sugli sportelli della capitale meno frequentati, col tono un po’ complice e un po’ diffidente tipico dei cercatori di funghi.
Mentre aspettavo uno dei due soli sportelli aperti è stato chiuso – in faccia a 22 persone in coda – e l’impiegata si è messa a fare altro. Per questo ho protestato, rilevando quanto la mossa organizzativa segnalasse scarso rispetto dei clienti. I suoi dipendenti mi hanno risposto che gli è stato ordinato di chiudere certe operazioni di back-office entro le 13 benché l’apertura al pubblico termini alle 13:35. “Noi lavoriamo, andate a protestare con i capi”, hanno detto puntando l’indice verso l’alto.
Il vero freno all’e-commerce è dunque il servizio pessimo di Poste Italiane – causato dal quel taglio dei costi che lei chiama efficienza, e pazienza per la qualità del servizio, ché tanto è in monopolio e chissenefrega. Andare a comprare il volume in libreria mi costerà un paio di euro e dieci minuti di tempo in più, ma non mi esporrà al rischio di passare un’ora all’ufficio postale se qualcosa va storto. Quindi lo sfascio del servizio postale che lei dirige – con buona pace di Amazon, eBay e compagnia – equivale a una gigantesca campagna di analfabetizzazione digitale: mette in fuga anche i più entusiasti. Potrebbe fare qualcosa per rimettere d’accordo le sue parole e i suoi fatti? Cordiali saluti.
P.s. La prego solo di non tentare la teoria del malaugurato caso isolato. I suoi predecessori per anni hanno preso in giro gli italiani con il caso isolato. Non ci crede più nessuno.