il Giornale, 11 dicembre 2015
La scrittura è un’ossessione, il manuale del re per aspiranti romanzieri. Tra droghe, alcol e manoscritti buttati, Stephen King racconta la sua storia e spiega come costruirne una
I l numero di libri e scuole di scrittura creativa è smisurato e inversamente proporzionale alla loro utilità. In genere servono a far guadagnare qualcuno sugli ingenui che si mettono seduti a ascoltare dei furbi. Gli unici corsi di scrittura utili sono quelli di minimumfax tenuti da Nicola Lagioia, Christian Raimo, Francesco Pacifico, Giordano Meacci e altri equivalenti, perché è facile diventare come loro, basta andare molto in giro e frequentare critici e letterati, e soprattutto battersi per qualche causa civile, il talento è un optional (già per gli insegnanti).
Tra i tanti, hanno scritto libri sul mestiere di scrivere André Gide (uno dei primi), Raymond Carver (per scrivere minimalista), Italo Calvino (le lezioni americane, un liofilizzato di leggerezza, rapidità, visibilità e molteplicità, due palle così), Umberto Eco (su come non pubblicare un libro), Aldo Busi (all’interno di Sodomie in corpo 11, bellissimo, ma vale solo per Aldo Busi), e Stephen King, quest’ultimo con un testo del 2000 intitolato On Writing, appena ritradotto e ripubblicato da Frassinelli (pagg. 314, euro 17). «Questo è un libro breve perché la maggior parte dei manuali di scrittura creativa sono pieni di stronzate» scrive King nella seconda prefazione, e non ha torto. Il motivo per cui non esiste viatico sensato è che essere scrittori non è un mestiere, perfino quando lo è. Se Einstein avesse perso tutto il lavoro matematico per arrivare alla teoria della relatività, avrebbe potuto rifarlo, spiegarlo a un altro fisico, oppure ci sarebbe arrivato un altro scienziato per conto suo, mentre neppure Joyce potrebbe riscrivere l’Ulisse: una volta scritto, un capolavoro è oscuro al suo stesso autore. Questo discorso vale anche per un geniale autore di narrativa popolare come King. Il quale sa ben imbastire, nella seconda parte, un discorso tecnico su sintassi, struttura, trama e aggiramento dei cliché espressivi, ma è più interessante nella prima parte del libro, quando racconta di se stesso, e quanto afferma, anche qui, vale solo per lui, e così deve essere, se valesse per tutti sarebbe Carofiglio. Tuttavia, corsi e ricorsi di ogni scrittore che sia tale: decine di racconti inviati alle case editrici fin dall’adolescenza, senza mai nessun riscontro (e parliamo di storie popolari, mica era Kafka). Il lavoro di insegnante, mentre continuava a sfornare decine di manoscritti: «Mia madre sapeva della mia ambizione di diventare scrittore. Con tutte quelle note di rifiuto appese al chiodo sulla parete della camera da letto, come potrebbe essere altrimenti?». L’alcolismo e la tossicodipendenza (con una moglie e due figli), e il confessarsi attraverso i suoi personaggi, «dopo tutto ero io che avevo scritto Shining senza rendermi conto di raccontare la mia storia». Dipendente da cocaina, Xanax, Valium, codeina per la tosse, la moglie lo accusa di bersi perfino il Listerine, il colluttorio di cui spariscono intere confezioni, ma è falso: «in realtà preferivo lo Scope». Attenzione, King non tesse nessun elogio sull’uso delle droghe nell’arte, «uno dei grandi miti della nostra cultura nazionalpopolare», e la colpa, secondo lui, sarebbe di quattro autori: Ernst Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Sherwood Anderson e Dylan Thomas. Dimentica la beat generation e il decadentismo, (prima del sesso, droga e rock ’n roll c’era Baudelaire e compagnia bella), però sono alibi, «chi se ne frega se sei James Joyce, John Cheever o un barbone avvinazzato che sonnecchia alla Penn Station; siamo tutti uguali quando vomitiamo all’angolo di un marciapiede». Niente tv per gli aspiranti scrittori, almeno all’inizio: «Faccio parte dell’ultimo gruppo di romanzieri americani che ha imparato a leggere e scrivere prima di una dieta quotidiana a base di stronzate video». Con un suggerimento pratico: «Se siete autori in erba, non sarebbe male bruciare il cavo del televisore, avvolgerlo intorno a un chiodo e rificcarlo nella presa, per vedere se l’apparecchio esplode». In una versione aggiornata io metterei il computer e gli smartphone che servono a attaccare i cervelli ai social network, anche perché in tv ci sono delle serie che sono superiori alla maggior parte dei romanzi pubblicati.
Cos’è la letteratura? È telepatia. Non nel senso sovrannaturale che ci si aspetterebbe dal re dell’horror, bensì un concetto simpatico e originale: quando si scrive, si arriva al cervello di milioni di persone standosene a casa propria. Vale anche per uno status su Facebook, ma se scrivete l’Amleto dura di più. In ogni caso, il consiglio più utile di Stephen King è un altro, elementare: «Se volete diventare scrittori, dovete leggere e scrivere un sacco. Che io sappia, non ci sono alternative o scorciatoie». Lo sapeva perfino Giorgio Faletti, gran divoratore di thriller. È per questo che chi ha un manoscritto nel cassetto non sarà mai uno scrittore, dovrebbe averne dieci inediti oltre a qualche migliaio di libri letti, semplicemente perché non ne può fare a meno. La scrittura è ossessione senza compromessi, il resto, se viene, viene da sé.