il Giornale, 11 dicembre 2015
In Italia due clandestini espulsi su tre restano. Ecco perché il sistema del foglio di via non funziona
C’è Mohamed Jella, 27 anni, algerino, che a Parma uccide Alessia, la compagna, massacrandola di botte e trascinandola fino all’androne di casa, quando da tre mesi avrebbe dovuto lasciare l’Italia: aveva ricevuto il provvedimento di espulsione dalla questura di Ferrara, ma era rimasto di fatto libero di girare in Italia. C’è Ismail Zied, tunisino da guinness a Ragusa: espulso sette volte, rimpatriato due, si è scoperto a maggio che era uno scafista. Accanto alle centinaia di migliaia di profughi, ai bambini che arrivano in Italia soli e poi scompaiono 3mila quest’anno – ci sono decine di migliaia di clandestini che non sono rifugiati, non sono profughi non sono bambini, ma vivono in clandestinità senza mai essere riaccompagnati al Paese di origine.A diciotto anni dall’istituzione dei Cie, i centri di identificazione ed espulsioni (voluti, tra l’altro, dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, firmatario della prima legge da ministro dell’Interno) si può dire che il meccanismo dell’espulsione è un fallimento. Almeno due immigrati su tre, quando vengono raggiunti dal fatidico foglio di via, l’invito del questore a lasciare l’Italia, rimangono. Espulsi, ri-espulsi, espulsi ancora, senza andarsene mai, tre, quattro, cinque, sette volte, come il giovane scafista poi arrestato a Ragusa, fermato come Caronte di 178 migranti sbarcati in Sicilia dall’inferno di un viaggio impossibile. «Non c’è certo solo Zied raccontano i poliziotti di Ragusa spessissimo va a finire così». Si trovano di fronte sempre le stesse facce. E sembra davvero di giocare a guardie e ladri.
È naturale che non tutti i pluri-espulsi sono dei delinquenti, ma certo è che quando aumentano i casi di cronaca di omicidi o traghettatori, tutti allontanati una o più volte dall’Italia, il problema inizia a porsi con una certa serietà. Dati italiani su questi argomenti non vengono mai forniti, se non a richiesta specifica, nel caso del Giornale non soddisfatta. Ma ci sono le voci dalle città, le cifre da alcuni centri emblematici, dove l’ufficio immigrazione della questura lavora moltissimo, ma spesso a vuoto. Rimini per esempio, la spiaggia più amata dagli ambulanti abusivi. Nel 2015 sono state effettuate 224 espulsioni: un ritmo di una ogni giorno e mezzo. Ma le espulsioni effettive sono tutt’altra cosa: le cifre provvisorie parlano di 7 riaccompagnamenti alla frontiera, 36 clandestini condotti nei Cie, 31 partenze volontarie, 137 ordini del questore, ora si chiamano così, l’invito a lasciare il territorio entro sette giorni. Su 224 non in regola, solo 87 sono stati quindi avviati verso una vera espulsione. Centotrentasette non identificati e praticamente in libertà, con la semplice intimazione ad andare via.«I dati sul contrasto all’immigrazione clandestina sono decisamente poco confortanti commenta il segretario del sindacato di polizia Sap di Rimini, Tiziano Scarpellini Non riusciamo a far fronte alle espulsioni, perché il problema grosso è l’identificazione. Non siamo spesso aiutati dai consolati. Si devono trovare nuovi sistemi per arginare il fenomeno».
I dati segnalano che almeno una volta su cinque nei centri di identificazione di tutta Italia non c’è nemmeno un posto per accettare un immigrato da identificare. Ed è frequentissimo, confermano le questure, che nemmeno i Cie, in tre mesi di tempo, (prima erano 18) riescano a identificare e quindi a riportare a casa l’ospite: tutti di nuovo liberi.
Il meccanismo delle espulsioni non funziona proprio perché i Cie sono spesso troppo pieni e non accettano gli ingressi. Il secondo motivo è che con molti Stati l’Italia non è riuscita a trovare una collaborazione produttiva. Con Tunisia e Marocco le procedure di identificazione sono particolarmente difficili. Buona parte del giro dell’illegalità si alimenta proprio nei Cara, i centri di accoglienza per i rifugiati. A Catania la commissione per il riconoscimento dello Status di rifugiato sta rigettando oltre il 50% delle domande di asilo del Cara di Mineo, il più grande centro di raccolta di profughi del Sud Italia.