La Stampa, 11 dicembre 2015
Storia di un decreto del governo che ha salvato quattro banche e fatto perdere soldi ai risparmiatori
Nella storia del risparmio italiano c’è un «prima» e un «dopo» il 22 novembre 2015. Prima, nella storia della Repubblica, non era mai accaduto che i risparmiatori perdessero soldi come conseguenza di un decreto del governo. Come si è arrivati a tutto questo è piuttosto complicato. Anche perché, oggi, è tutto un rimpallo di responsabilità tra Italia e Unione europea, tra governo e Bankitalia e tra le diverse autorità di vigilanza.
In tutto questo ci sono circa 10 mila risparmiatori che hanno perso molto, o tutto, sostanzialmente perché hanno comprato come «sicuri» prodotti che in realtà sicuri non lo erano affatto. Circa, perché i numeri definitivi ancora non ci sono. A 19 giorni dal decreto, sono ancora in fase di elaborazione.
La direttiva del 2014
Alla base del decreto c’è una direttiva del europea (la 2014/59/UE). È quella del cosiddetto «bail-in», che impone la partecipazione di tutti i portatori d’interessi – azionisti, obbligazionisti e in ultima analisi anche correntisti – al salvataggio di istituti in crisi. Non proprio un fulmine a ciel sereno: la direttiva è del maggio del 2014, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Ue il mese successivo. La direttiva viene recepita nel nostro ordinamento con un decreto legislativo del 16 novembre scorso ed entrerà in vigore nella sua pienezza il prossimo 1 gennaio 2016. Nell’anno e mezzo che passa tra l’approvazione della direttiva e il suo recepimento accadono anche altre cose. In sostanza, quattro piccole banche che tutte insieme fanno poco più dell’1% degli attivi del sistema bancario italiano, si trovano in una situazione di crisi della quale non si vede una via d’uscita. CariFerrara e Banca Marche sono commissariate da Bankitalia dal 2013 e il percorso di commissariamento è arrivato alla fine. Chieti ed Etruria sono state commissariate successivamente ma anche per loro vie d’uscite, leggi un acquirente che si faccia carico del loro risanamento, non si vede. Ecco che spunta l’ipotesi di far intervenire il Fondo interbancario di tutela dei depositi. Ovvero, quello strumento finanziato dalle banche stesse che dovrebbe garantire i depositi fino a 100 mila euro in caso di fallimenti. La soluzione prende corpo in estate e Ferrara già in luglio delibera in assemblea l’ingresso del Fondo nel capitale.
Il precedente di Tercas
Problema: la Ue ritiene quell’intervento un aiuto di Stato. C’era infatti già un precedente, quello di Banca Tercas. In febbraio, la Commissione aveva comunicato ufficialmente all’Italia che l’intervento del fondo nel capitale della Cassa abruzzese era lesivo della concorrenza, in quanto è vero che il fondo utilizza capitali privati, ma l’adesione è obbligatoria e regolata da leggi statali.
Così, mentre a Roma si studia un intervento complessivo per tutte e quattro le banche, a Bruxelles si negozia per avere un via libera e a Ferrara come ad Arezzo, Chieti e Ancona le cose vanno sempre peggio. Da luglio a novembre passano quattro mesi durante i quali la situazione delle quattro banche si deteriora. Si arriva alla fine di novembre e alla «necessità e urgenza» del decreto del 22 novembre. L’alternativa sarebbe stata davvero, probabilmente, una serie di fallimenti a catena con conseguenze incalcolabili per l’economia italiana, come paventato dal presidente del Fondo interbancario di tutela dei depositi, Salvatore Maccarone, durante un’audizione in Parlamento appena qualche settimana fa.
La soluzione scelta ha forse evitato il peggio, ma di certo chi ha studiato il decreto avrà qualche difficoltà a spiegarlo a chi ha perso per decreto i propri risparmi «sicuri».