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 2015  dicembre 11 Venerdì calendario

Storia dell’untore dell’Hiv che sta terrorizzando Roma

Dunque ci sono davvero gli untori e chissà come ci sarebbe rimasto male l’innocentista Alessandro Manzoni se avesse saputo che «il misterioso e letale unguento» esiste ed è lo sperma. Eppure manzonianamente ancora i giudici e i giornalisti si chiedono se bisogna fare il cognome di Valentino T., il Mister Virus di Acilia e, rischiando l’effetto gogna, gli sputi e la ferocia del “dàgli all’untore!”, pubblicare pure la sua foto per tutelare la salute pubblica e fermare un contagio che ormai dal 2005 si propaga dal focolaio di Roma con la velocità dell’amore, con l’intensità del desiderio, con tutti i modi intimi e selvaggi del contatto sessuale senza preservativo. Certo, il nostro Valentino T. non somiglia neppure alla lontana al famoso Charlie Sheen (“Wall Street”, “Platoon”…), il bad boy di Hollywood che dice di avere avuto almeno cinquemila sexual partner nella sua vita e di spendere 2mila dollari al giorno in droghe e 30mila al mese in prostitute. Ebbene, una decina di giorni fa, durante il “Today Show“della Nbc, Sheen ha spavaldamente confessato di avere il virus da quattro anni ma di avere continuato a condurre i suoi stravizi di sesso non protetto. Assediato dalle donne contagiate che adesso gli chiedono i danni ha detto: «Sono ciarlatane disperate che mi ricattano». Ma per pagarle ha già messo in vendita le sue tre ville di Beverly Hills.
Al contrario, da quando il 24 novembre è stato messo in prigione in isolamento, Valentino non parla, non risponde alle domande, non cerca più di esercitare il suo fascino di bad boy di periferia, la sua spavalderia un po’ pacchiana è diventata silenzio, sembra più umiliato che arrabbiato. «È sopraffatto», dice il suo avvocato, che si chiama Giuseppe Minutolo ed è il legale delle due società della famiglia, due imprese di traslochi che fanno capo allo zio e a una zia di Valentino. A differenza di Sheen, che è il figlio di Martin Sheen, un attore ancora più bravo e famoso (quello di “Apocalypse Now”), e che sembra uscito da un giallo sporco di James Ellroy,Valentino, che non consuma né droga né alcool, ha una storia familiare da libro Cuore. Non è Sheen perché non ha i suoi soldi, non ha la sua noia da divo, e non ha attorno la “Hollywood Babilonia” (Adelphi, 1979) che comincia dal muto e arriva, per adesso, sino a lui. Quella di Valentino è solo la Babilonia della borghesia piccola piccola di Pietro Germi e di Vincenzo Cerami, la rispettabilità della domenica e il mito della virilità.I nonni materni Renato e Maria, con i quali Valentino è cresciuto, erano piccoli proprietari terrieri di Caltanissetta che si trasferirono a Roma, forse sotto minaccia di rapimento. E dunque la fragile Adele, che era la mamma di Valentino, nacque a Roma nel 1962 ma per qualche motivo, legato probabilmente al pudore, nel 1984 fu spedita a Caltanissetta dove mise al mondo il suo unico bambino, Valentino appunto che, figlio di padre ignoto, prese il cognome della madre: T. Purtroppo la sfortunata Adele morì a Roma a 27 anni, nel 1989. Dunque Valentino non sa chi è suo padre e aveva 5 anni quando morì sua madre. Non ne aveva ancora venti quando una donna lo contagiò. Ne aveva invece 21 quando un’infermiera scoprì di essere stata contagiata da lui, e fu il suo primo delitto da untore.E dunque anche noi ci siamo chiesti fino a quando bisognerà proteggere l’identità di Mister Virus e sottrarre questo avvelenatore di donne al disprezzo collettivo e la sua famiglia all’isteria e allo schiamazzo mediatico, rischiando però di non individuare e perciò di non aiutare tutte le persone contagiate, di non accerchiare, assediare e magari fermare l’epidemia.Certo, la procura tratta Valentino T. come un terrorista che ha inquinato un acquedotto mentre la difesa finge che sia solo un povero figlio, libertino ma romantico, al quale hanno messo sulle spalle la malattia dell’epoca. Cresciuto dalla nonna, da uno zio e da altre due zie, Valentino è stato il bambino viziato di una affollatissima casa che la nonna Maria, finché è vissuta, ha tenuto unita con quella capacità matriarcale così ben raccontata da Sciascia, che proprio a Caltanissetta visse e insegnò. Morta lei, i figli hanno cominciato a litigare per la “roba”. E intanto Valentino, senza dire nulla a nessuno, rifiutava di farsi curare.Noi ci auguriamo che, comunque, stamattina il Tribunale del Riesame conceda i domiciliari a questo giovane criminale sieropositivo perché, nonostante la gravità di un reato che potrebbe nel frattempo da “lesioni personali gravissime” arditamente diventare “tentato omicidio plurimo”, il carcere non ci pare indispensabile a scongiurare – come si dice in termini tecnici – il pericolo di reiterazione del reato, e forse basterebbe inserire l’obbligo di non comunicare con persone diverse da quelle che in casa lo accudirebbero. Comunque sia, il giurista oggi si chiede: Valentino voleva rapporti sessuali a tutti i costi o voleva, per revanche, infettare?Di sicuro ha mentito sino a mandare via WhatsApp un certificato falso alla ragazza che poi l’ha denunziato in procura con una paginetta scritta con l’aiuto di un avvocato. Si erano già lasciati e lei gli aveva chiesto, sempre attraverso WhatsApp: «Vale, dimmi la verità: sei sieropositivo?». E quello: «Io? Vuoi scherzare!». Ma lei non ha creduto al certificato. «Guarda che il tuo Valentino è sieropositivo», le aveva detto un’amica della sorella. Dunque ha fatto l’esame del sangue ed è risultata positiva anche lei: ha il virus della immunodeficienza ma, come nel caso di Valentino, non è l’Aids. Può diventarlo.È una bella ragazza fine, gentile e piena d’energia che una sola cosa non ha saputo spiegare al giudice: cos’ha trovato in lui. Ora è diventata la sua accusatrice implacabile.È lei che ha dato alle indagini nomi e cognomi, ha guidato tra le amicizie di Facebook e ha accompagnato nelle chat della seduzione il pm Francesco Scavo, un uomo paziente e buono che l’ha ascoltata tormentando una sigaretta spenta, a ricordo di un piacere molto meno avvelenato. Il procuratore non ha completamente smesso di fumare, ma ritarda il momento dell’accensione. E deve essere stato fulminante, nella stanzetta di Piazzale Clodio, il momento in cui questa signora ha spiegato al giudice che anche il gioco d’azzardo di Valentino non era solo lucido e scaltro, perché, come canta Paolo Conte, «si trattava d’amore» nella casa che lui ha comprato ad Acilia «dove le case costano meno che a Roma».Ma come deve comportarsi un giudice con tutte queste donne infettate, sei accertate, quattro sotto esame, mentre altre 5 sono arrivate e altre ne stanno arrivando, mandate in procura dalla trasmissione “Chi l’ha visto?” che si conferma come una straordinaria telepolizia giudiziaria. Quanti altri rapporti hanno avuto queste donne e con chi? Da due mesi il pm, l’ispettrice di polizia Francesca Magliuolo e la dottoressa Capobianchi, che dirige lo Spallanzani, si sono trasformati in cacciatori di virus, confrontano genotipi, incrociano le compatibilità, ma soprattutto interrogano e, con una delicatezza sorprendente nel mondo giudiziario, pongono e si pongono le domande più difficili. Hanno per esempio interrogato l’amico di Valentino che qualche volta sperimentava con lui il rapporto a tre, tentazioni che in questo contesto sembrano dissolutezze e che in procura sono comunque indicibili perché prendono subito la forma grottesca delle parole che feriscono e danno alle cose un aspetto assolutamente falso. Quel giovanotto non sapeva nulla del virus di Valentino ed è perciò corso a farsi anche lui l’analisi del sangue: negativo. E non tutte le ragazze che sono state rintracciate sapevano di essere sieropositive. Quasi sempre l’ispettrice Magliuolo, con l’aria di chiedersi da che parte prenderle, trovava le parole giuste, e quando non le trovava dimostrava che anche la polizia può comunicare con piccoli sussulti e frasi vaghe. Una delle ragazze, disarmante, era incinta. Un’altra, l’infermiera che aveva amato Valentino, aveva fatto il test nel 2006 e poi era tornata con lui per ben tre anni come una rifugiata, a piangere sulla sorte comune, a baciarsi tra le lacrime. Adesso si è convinta che Valentino sapesse già di essere sieropositivo sin dall’anno prima, il 2005, e dunque anche lei lo accusa di averla infettata volontariamente. Infine ce n’è una che lo ama ancora e giura che hanno sempre usato il preservativo. E però rischia l’incriminazione per favoreggiamento: secondo l’accusa è ancora soggiogata, pronta ad accorrere dovunque lui la chiami.Sino a quando si riuscirà a non pubblicare anche i nomi e le foto delle contagiate e poi i nomi e le foto di tutti quelli che hanno avuto rapporti con loro? Tra i contagiati ci sono anche due uomini, un fidanzato e un marito. Insomma le vittime, che sono adesso serbatoi del virus, devono essere tutelate ma anche coinvolte nelle indagini e dunque, anche loro, stanno per essere esposte alla ferocia mediatica, alle interviste di spalle e con la voce contraffatta, alle offerte in danaro delle micidiali tv del pomeriggio.Di sicuro il catalogo delle contagiate sembra quello del Don Giovanni. Da ben dieci anni Valentino T «non si picca / se sia ricca/ se sia brutta / se sia bella», e a tutte lascia, come segno di sé, la sua sostanza malefica. E lo chiamano serial-untore appunto smentendo dopo quasi 200 anni il povero Manzoni che raccontava gli untori come gli innocenti perseguitati, torturati e uccisi perché propagatori di peste. E forse a Manzoni, non solo per amore di giustizia stava molto a cuore l’innocenza degli untori, al punto da raccontare che il più innocente di tutti, Renzo Tramaglino, venne rimproverato di aggirarsi «con lo scatolino dell’unto, o l’involtino della polvere … nel cocuzzolo del cappello». C’era, ai tempi del Manzoni, e proprio come oggi c’è l’Aids, il male orribile della sifilide che uccise suo padre, sua nonna e l’ultimo compagno della madre, un male allora misterioso e invincibile che era anche peccato di contagio sessuale. Duecento anni dopo sono ancora la carne, la morte e il diavolo a spiegare che cosa è accaduto veramente a un ragioniere di 31 anni, nato a Caltanissetta il 21 luglio del 1984 e cresciuto a Roma, impiegato in una società che amministra condomini, non particolarmente bello, un faccione rotondo che nonostante la cancellazione da Facebook è ancora su qualche chat, una specie di bagnino di periferia con i soliti banali e volgari tatuaggi, a cominciare dal veliero sul braccio destro che solo adesso, nel carcere di Regina Coeli, non è più il conformismo del poveraccio che per sentirsi strafico imbratta il proprio corpo anziché imbrattare i muri, ma diventa, suo malgrado, un codice di prigione, di pirati e galeotti, di ragazzi per sempre selvaggi. Adesso si lascia curare. Il carcere gli ha tolto il sorriso vuoto del coatto e gli ha restituito il suo corpo, segnato ma vivo.