Corriere della Sera, 11 dicembre 2015
Come e quando intervenire in Siria e in Libia
L’Isis si sta spostando dalla Siria alla Libia, base ideale per i loro missili verso l’Italia. Attenzione: non sono quelli di Gheddafi, con scarsa gittata, che al massimo sfiorarono Lampedusa. Le misure messe in atto contro il nemico, sul nostro territorio, a che servono? Cosa si aspetta per intervenire con forze italiane, Nato, russe e non so quante e quali a difesa della Libia e all’eliminazione di questo «cancro»? Ma le sembra un Renzi qualsiasi, da solo, all’altezza di prendere decisioni simili? No, questo governo, purtroppo, è incapace di pensare, organizzare, coordinare e agire su questi problemi! E la sua voce, in Europa,... lasciamo perdere.
Leopoldo Chiappini
Roseto degli Abruzzi (Te)
Caro Chiappini,
Non credo che il governo sia privo di una qualsiasi strategia libica. L’Italia potrebbe intervenire, secondo Renzi, soltanto nell’ambito di una iniziativa promossa dall’Onu e dopo un accordo fra le due fazioni che stanno governando la Libia: quella di Tripoli, di cui fa parte anche la Fratellanza musulmana, e quella di Tobruk, riconosciuta da una parte della comunità internazionale, in cui ha avuto un ruolo di spicco il generale Khalifa Haftar, un ex ufficiale dell’esercito di Gheddafi. L’accordo è stato più volte annunciato, anche negli scorsi giorni, ma occorrerà verificarne il funzionamento.
Le esitazioni di Renzi, in questo caso, mi sembrano giustificate. Chi manderà i suoi soldati in Libia, senza la benedizione della comunità internazionale e il consenso di una parte significativa della società libica, correrà il rischio di finire tra due fuochi e di regalare qualche punto in più allo Stato Islamico. Sin dall’invasione americana dell’Iraq, nel 2003, i jihadisti hanno sempre usato gli interventi delle potenze occidentali per atteggiarsi a nemici degli infedeli, protettori dell’Islam, vendicatori delle umiliazioni subite dai Paesi arabi nel corso della loro storia. Sono questi gli argomenti nazional-religiosi con cui sono riusciti a reclutare in Europa e negli Stati Uniti un numero non indifferente di volontari.
Gli stessi argomenti non valgono invece per l’Iraq e per la Siria. Qui un intervento potrebbe contare sull’aiuto di tutti coloro che sono minacciatati dall’Isis: i sunniti fedeli al governo di Bagdad, gli sciiti, i curdi, gli yazidi, i cristiani e altre minoranze etnico-religiose. Il problema, se mai, è quello di creare, prima dell’intervento, una alleanza coerente ed efficace, non la variopinta coalizione di sessanta Paesi, spesso vantata dagli Stati Uniti, ma divisa da obiettivi diversi e strategie contrastanti. Per creare questa Alleanza, tuttavia, occorre sciogliere almeno due nodi strettamente intrecciati. Il primo è quello della transizione siriana, dal regime di Bashar Al Assad a una Siria in cui gli interessi degli attuali gruppi dirigenti non vengano ignorati. Il secondo è quello della Russia che in questa vicenda è un indispensabile alleato.