Corriere della Sera, 11 dicembre 2015
«Ho il gomito dolorante, la spalla distrutta, il polso operato». Flavia Pennetta racconta il suo addio al tennis
La felicità è un sistema meno complesso di come ce lo raccontiamo. Il balconcino dove coltivare il basilico sapendo che non morirà durante una trasferta transoceanica. Il nuovo materasso per la camera da letto in colori écru. La replica del trofeo dell’Open Usa appena sdoganata («L’hanno mandata a Brindisi, dai miei. È arrivata in una cassaforte blindata. Enorme, maestosa, fichissima!»). Il cappuccino al bar italiano da scolare senza rimorsi sgranocchiando taralli.
Vista da quassù, dal settimo piano del luminoso appartamento affacciato sul quartiere Tarradellas, la vita è meravigliosa. Flavia Pennetta, la pugliese bruna che sconfisse la pugliese bionda – Roberta Vinci – nella finale di New York trasformata in un piccolo mondo antico ribollente d’affetto, la condivide con Fabio Fognini, il collega ligure che due Natali fa (dicembre 2013) le chiese se un’amicizia decennale saldata dal tennis fosse pronta al grande salto. E la sventurata, con gioia, rispose. «Con Fabio abbiamo cinque anni di differenza: 33 io, 28 lui. All’inizio tutti mi dicevano: ma che ci fai con quel ragazzino, ti stuferai in fretta. Invece...». Invece un sentimento attecchito per gioco («Non saprei neanch’io dire come»), in due stagioni di grande tennis culminate con il fantasmagorico Slam per cui Flavia si dà ancora i pizzicotti, è diventato qualcosa di grande, che nel 2016 arriverà davanti all’altare. Dei dettagli di un matrimonio che è il segreto di Pulcinella dell’ambiente (la data non è rivelabile nemmeno sotto tortura, i preparativi viaggiano spediti sulla triangolazione Barcellona-Brindisi-Arma di Taggia), non è questo il momento di parlare. Qui, nel tepore dell’inverno spagnolo e di un nido che parla di Fabio e Flavia in ogni soprammobile, importa precisare che il ritiro annunciato a New York contestualmente al sollevamento della coppa («L’avrei detto anche se avessi perso da Roberta, che in semifinale era stata super contro Serena Williams»), un esercizio di stile di rara bellezza che ha pochi eguali nello sport, non è trattabile.
Questa, da compagna e futura moglie e madre («Casa mia, ora, è dove è Fabio: se decide di andare a Timbuctù, io lo seguo»), è la nuova vita di Flavia Pennetta. Punto. «La luce mi si è spenta dentro progressivamente, senza un clic preciso. Al tennis per quindici anni ho dato tutta me stessa. Ho il gomito dolorante, la spalla distrutta, il polso operato. Però non ho rimpianti: rifarei ogni cosa». Avviso ai naviganti: «La decisione è presa, indietro non si torna. Né per soldi né per noia né per i Giochi di Rio. Se un po’ mi conoscono, non proveranno a farmi cambiare idea. Sono io che lascio il tennis, non il tennis che lascia me. Sono salita in cima alla montagna e adesso mi godo il panorama. Bello».
In quell’arcipelago intimo chiamato serenità, due boe rendono l’addio della più grande tennista italiana (insieme a Francesca Schiavone, regina di Parigi 2010) la più fluida delle navigazioni. L’aver centrato l’inseguimento di una vita («Se riguardo le foto di New York mi vedo raggiante, con le stelline negli occhi. Mi ero immaginata che avrei fatto le capriole. Invece no: ero più felice dentro che fuori. A qualcuno sono apparsa fredda. Ero pacificata») e l’amore. Come Fabio ha cambiato Flavia, e viceversa, è una dinamica causa/effetto simile alla volée che segue a rete un servizio potente e angolato. Per fare punto, basta mettere lì la racchetta. «Lui non parla, fa. E io ho imparato a decifrare il suo linguaggio non verbale. Mi sono scoperta più paziente, più dolce, più donna. Fabio, che era un vulcano in eruzione, è cresciuto e si è accettato. Certo ogni tanto prende ancora a capate il muro, però vedo che il cambiamento, faticosamente, entra in lui. Non gli farò mai da coach né da manager: terremo privato e lavoro ben distinti. Ma dalla trasferta in Sudamerica, il prossimo febbraio, lo seguirò. Da fidanzata».
Corteggiata da mezza Italia (Sky per le telecronache, la Rai per «Ballando con le stelle», Università e aziende per gli speach sul mestiere di vincere, il Coni per Roma 2024), Flavia ha rifiutato tutti gli impegni a lunga scadenza. «No, non sono già incinta – sorride di quel sorriso così made in Italy con cui ha conquistato il mondo —. Semplicemente, dopo una carriera scandita da impegni, viaggi e orari, mi piace svegliarmi senza sapere cosa fare. Poi, certo, il progetto con Fabio prevede anche i figli. E senza aspettare troppo. Vediamo dove sarò tra nove mesi…». Sta per infilarsi in un turbinio di feste e premiazioni (il 16 al Quirinale da Mattarella) ma pensiero e cuore restano ancorati su questo divano scelto con Fabio insieme a tutto il resto, quando c’era da dare la caparra per comprare casa insieme e Flavia, clamorosamente, vacillò: «Non era un investimento economico. Era un seme. Mi presero mille paure. Un’ora al telefono con mia madre: mami, che faccio? E lei, saggia: amore, ti vedi con lui tutta la vita?». Claro que sì, con postilla: «Smetto di giocare a tennis per me, non per Fabio. Non farò mai più la cavolata di annullarmi per un maschio. È già successo: la lezione l’ho imparata». La bambina che papà Oronzo portò al campo a cinque anni, non abita più qui. Piccole donne crescono, nel solco del proprio destino. «Se c’era un disegno prestabilito, me lo sono meritato: ho resistito agli sgambetti della vita e ora m’invento un futuro tutto mio». Con Fabio, podemos.