Corriere della Sera, 11 dicembre 2015
Luigino, che si presentava tutte le mattine in banca a chiedere una spiegazione per i sui 110 mila euro svaniti. Poi s’è impiccato
Prima conviene fare un passaggio in banca. Anche per vedere che facce hanno.
La filiale della Banca dell’Etruria è al numero civico 5 di corso Centocelle. Le pareti verdine, un arredamento sobrio, la stanza del direttore in fondo, dopo la sala degli sportelli.
Arriva una segretaria imbronciata: «No, mi spiace: il direttore non può riceverla. Se vuole, telefoni ad Arezzo, alla sede principale».
Dicevano la stessa cosa a Luigino D’Angelo di anni 68 anni, ex dipendente dell’Enel in pensione.
Non possiamo riceverla, torni domani, anzi non torni per niente, tanto purtroppo c’è poco da fare: i suoi centodiecimila euro non li rivedrà.
E lui immobile, paralizzato in un miscuglio di stupore e rabbia davanti a questa porta (se lo ricorda bene un impiegato: «Poveraccio, per una settimana intera s’è presentato qui, ogni mattina, e da qui non si muoveva»).
I risparmi di una vita, un pezzo di liquidazione, azioni e obbligazioni che funzionari abili lo avevano convinto a sottoscrivere con un profilo a «rischio elevato»: tutto bruciato nel rogo previsto dall’operazione Salvabanche.
Per consolarlo: «Vabbè, signor D’Angelo, in fondo le resta pur sempre l’accredito della pensione, no?».
Certe storie le leggi solo sul giornale, pensava.
Certe storie non possono capitare proprio a te.
Certe storie sono incubi, però poi ti svegli sudato e ti resta solo un po’ d’ansia addosso.
Invece tornava a casa e capiva che non era un incubo.
La casa è in via Ugo La Malfa, zona Faro, nella parte alta della città. Villini a due piani sul dorso sbagliato della collina, il mare non si vede.
Il giardino della famiglia D’Angelo è tra i più curati. C’è un pino largo e basso, ci sono rose bellissime, ci sono fiori fuori stagione. Sulla rampa del garage, un Suv giapponese coperto con un telo. Sul vialetto, un grosso scooter. Le biciclette sono nel retro. Le biciclette erano la vera passione del signor Luigino.
Un uomo mite, una persona perbene, un pensionato senza figli che vorrebbe godersi gli anni della pensione in santa pace, un signore distinto – come si diceva un tempo – che sembra perfetto per vivere in un villino così. Solo che poi tornava dalla banca e si ritrovava dentro lo stesso incubo.
Hai perso tutti i soldi.
Ti hanno ingannato.
E non puoi farci niente.
La moglie Lidia aveva intercettato brutti pensieri. Quando vivi insieme da cinquant’anni, ti basta mezzo sospiro. Da una settimana evitava di lasciarlo solo in casa. Ma lui s’era ingegnato di nascosto: scelto il tipo di corda (robusta: era alto un metro e 87) e il tipo di nodo; stabilito pure dove legare la corda (alla balaustra delle scalette che portano giù in sala hobby).
Non gli restava che decidere il giorno.
È impossibile capire con quali criteri si possa decidere un giorno così.
Il signor Luigino scelse un sabato: lo scorso 28 novembre.
Alle 16.20, rilesse per l’ultima volta sul computer la lettera di congedo dalla moglie, dalla banca (con accuse tremende) e dalla vita; aspettò che la suocera Anna salisse al piano superiore e che la moglie Lidia uscisse ad annaffiare le rose.
Quanto puoi metterci ad annaffiare una pianta di rose?
A lui bastò.
Adesso siamo tutti qui fuori dal cancello – solito pattuglione di cronisti, cameraman, fotografi – ad immaginarci la scena che può essersi trovata davanti la moglie Lidia.
È una donna esile, indossa un maglioncino giallo, ha i capelli a caschetto; colpisce il tono della sua voce: che ha perduto il tremore del dolore e ha assunto la freddezza di chi vuole e pretende giustizia (intanto, poco fa, la Procura di Civitavecchia ha annunciato l’apertura di un fascicolo: reato ipotizzato, «istigazione al suicidio»).
La signora Lidia parla a rate, un po’ al citofono, un po’ al telefono, un po’ dal vivo e il primo a parlarci personalmente e a convincerla a raccontare tutto è stato Paolo Gianlorenzo, il direttore di EtruriaNews.
Il riassunto delle dichiarazioni di Lidia D’Angelo è questo: «Tutto è cominciato a giugno, quando la banca convocò mio marito, spiegandogli che il suo profilo non era più adeguato al suo investimento: non so come, lo convinsero a passare da un profilo a «basso rischio» ad un profilo ad «alto rischio». Gli hanno fatto mettere un sacco di firme su un sacco di fogli. Lui, ad un certo punto, è stato assalito dal sospetto di essere stato incauto: ma quelli gli risposero che ormai aveva firmato e non poteva più tornare indietro. Abbiamo trascorso un’estate infernale. L’idea di ritrovarsi tutti i risparmi in una posizione di pericolo lo tormentava. Il decreto del governo è stata la mazzata finale. Luigino ha scoperto di aver perso tutto in un pomeriggio. È difficile dire se si sia tolto la vita o se, piuttosto, sia stato ucciso. I responsabili della sua morte sono in tanti. Non perdono chi ha scritto quel decreto, chi l’ha approvato, chi l’ha applicato. Qualcuno deve pagare».
Luigino D’Angelo è sempre stato un uomo di sinistra. «Per anni è stato iscritto alla Cgil», ricorda con passo struggente Alberto Leopardo, che fu suo segretario sindacale e che è padre di Enrico, il responsabile del Pd locale. «Le ragioni del suicidio di Luigino le conoscevamo tutti da giorni in città... Ma sono state rese note solo dopo due settimane. Curioso, no?».
Il nipote preferito del signor Luigino si chiama Adriano Renzi (cognome qui a Civitavecchia assai diffuso: un po’ meno il nome che Adriano ha dato a suo figlio, Matteo).
«Mio zio, questa è la pura verità, è stato rovinato e moralmente traumatizzato da quel decreto voluto proprio da un governo in cui lui credeva tanto, tantissimo...».
Le telecamere dei tigì si spengono.
Passa un marinaio, ha i gradi da ufficiale e, giunto innanzi al cancello, si fa il segno della croce.
Da qui il mare non si vede. Ma, come diceva il signor Luigino quand’era un pensionato felice, si vedono i gabbiani che partono in picchiata per andarci a pesca.