il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2015
Il business dei tubi sotto le bombe contro l’Isis
Bombe, guerra, ma anche energia. Dietro la superficie militare della lotta al Califfato, in Medio Oriente si intrecciano gli interessi energetici delle grandi potenze. Ecco cosa vogliono davvero gli stati attivi nell’area.
L’Isis deve salvare il suo contrabbando
Il sedicente Stato Islamico a cavallo tra Siria e Iraq si nutre di oro nero, si stima che ricavi dal petrolio tra i 500 mila dollari e i 2 milioni al giorno, cifra resa ancor più incerta dai bombardamenti di Francia e Russia nelle aree petrolifere. L’Isis, dopo la conquista di settembre di Jazal, controlla i giacimenti petroliferi della Siria e, dalla scorsa estate, piccoli giacimenti nell’area di Mosul in Iraq.
Nonostante la produzione siriana si sia più che dimezzata da quando nel 2011 è iniziata la guerra civile contro il dittatore Bashar Al-Assad, lo Stato Islamico è riuscito a mantenere l’esportazione di greggio in nero e la vendita in Siria di prodotti raffinati a prezzi altissimi, estraendo (secondo le stime del Financial Times) dai 30 ai 40 mila barili al giorno.
La Turchia non può rompere con Mosca
Sin dal del coinvolgimento della Turchia nella guerra all’Isis, soprattutto a seguito dei combattimenti al confine con la Siria a Kobane, il rapporto tra Isis è Turchia è risultato molto ambiguo. Il califfato e Ankara, pur essendo su fronti opposti, oltre a condividere la religione sunnita, sono uniti dal contrabbando di greggio dai giacimenti sotto il controllo dell’Isis.
Secondo il Wall Street Journal, la vendita è curata da trader siriani e turchi. Oltre a essere paese di transito per il gas azero, la Turchia è in trattative con la Russia per la costruzione del TurkStream. Già prima del 24 novembre – giorno dell’abbattimento del jet russo da parte dell’aviazione di Ankara per un presunto sconfinamento – il progetto era stato messo in pausa da Gazprom, ma non bloccato dalle recenti sanzioni come minacciato dopo lo scontro.
La Russia stretta tra mini-barile e gas
La Russia appoggia il regime di Bashar Al-Assad e, su invito del governo, ha iniziato a bombardare la Siria a settembre. Secondo più fonti i primi obiettivi di Mosca però non sono stati i territori controllati dai terroristi, ma i ribelli.
La posizione della Russia è delicata: oltre all’interesse per il porto di Tarsus in Siria, sbocco sul Mediterraneo per Mosca, l’amicizia tra i due Stati è al centro di delicati equilibri energetici. Molti dei nemici di Assad sono concorrenti o clienti di Mosca. Dal punto di vista petrolifero, la Russia risente, come tutti i Paesi esportatori, del crollo del prezzo del barile, provocato dai paesi Opec.
La compagnia petrolifera russa Rosneft taglia i dividenti e si confronta con i tentativi sauditi di conquistare quote di mercato nell’est Europa. I problemi aumenteranno quando, dopo l’accordo sul nucleare tra Stati Uniti e Iran, arriveranno sul mercato anche i quantitativi di greggio iraniani.
La compagnia di stato Gazprom, principale fornitore di gas dell’Unione Europea, esporta 30 miliardi di metri cubi anche in Turchia, secondo paese importatore dalla Russia dopo la Germania. Mosca e Ankara avevano firmato un accordo per la costruzione del gasdotto Turkish Stream, ma lo scorso mese, riporta il quotidiano specializzato Staffetta Quotidiana, il vice ad di Gazprom Alexander Medvedev ha comunicato il congelamento del progetto per almeno un anno, specificando che la mossa non ha nulla a che vedere con le posizioni opposte a proposito di Assad. Dopo l’abbattimento del velivolo russo nello spazio aereo turco, i rapporti tra i due Paesi si sono ulteriormente raffreddati.
L’Unione europea in ordine sparso
Nonostante sia unita a Mosca contro il terrorismo, l’Unione europea, insieme agli Stati Uniti, continua a sanzionare la Russia per la crisi in Ucraina, Paese di transito del gas. Dal punto di vista energetico l’Ue dipende molto dalla Russia – Germania e Italia in testa – e fino a poco tempo fa si discuteva di aumentare le importazioni di gas da sud attraverso il progetto South Stream, bloccato quest’estate da Gazprom.
La Germania, nonostante il parere contrario in merito della Commissione europea, a settembre ha firmato un accordo per la costruzione di Nord Stream 2, raddoppio di Nord Stream 1 per l’importazione di gas russo, che permetterà di aggirare l’Ucraina dal 2019.
Gli Stati Uniti non si sono espressi, ma non sono mai stati favorevoli alla dipendenza energetica europea dalla Russia. L’accordo sul nucleare tra Stati Uniti e Iran ha fatto rientrare Teheran tra i possibili partner commerciali, attirando l’interesse di Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia.
Alla ripresa dei rapporti con l’Iran, da agosto si è aggiunta la possibilità di importare gas dall’Egitto, grazie alla scoperta del giacimento supergiant di Zohr da parte dell’Eni. Anche con questi volumi aggiuntivi sarebbe comunque impossibile rimpiazzare del tutto il gas russo.
In Siria, dove i giacimenti sono tutti nelle mani dei terroristi e nell’area di Deir al-Zour, era presente la compagnia francese Total, costretta a ritirarsi nel 2011 con l’imposizione delle sanzioni alla Siria. Proprio in quest’area la Francia ha iniziato a bombardare. Total opera ancora invece nel Kurdistan iracheno, dove cerca peraltro di espandersi Isis. L’Eni è invece è presente a Zubair, nel sud dell’Iraq, ancora non toccato dagli scontri.
Stati Uniti, gli effetti dell’autosufficienza
Gli Usa sono contrari al regime di Assad e già nell’estate 2014 hanno bombardato l’Isis a sostegno dei ribelli impegnati sul campo. L’intervento non è stato esplicitamente autorizzato dalla Siria. Il presidente del consiglio iraniano Hassan Rohani, nel settembre 2014 alle Nazioni Unite, ha accusato il governo statunitense di avere armato e finanziato i terroristi.
Gli Stati Uniti sono pressoché autosufficienti sul fronte petrolio e gas da due anni. Con la vasta produzione shale (estrazione dalle rocce), gli Usa hanno rivoluzionato il mercato, diventando il primo paese produttore di petrolio e annullando le influenze che l’espansione di Isis avrebbe potuto avere sul prezzo. Oggi l’esportazione dagli Usa è quasi impossibile per legge, ma si discute di eliminare i vincoli.
Oltre che con la propria produzione, gli Usa hanno cambiato gli equilibri energetici attraverso l’accordo con l’Iran, finora tagliato fuori dall’esportazione di fonti fossili dalle sanzioni internazionali. Oltre agli altri paesi Opec, l’accordo ha scontentato Israele, che ha visto comparire due concorrenti inattesi per il suo giacimento di gas Leviathan ancora non sfruttato: l’Iran, appunto, e l’Egitto, in seguito alla scoperta di Zohr.
Il nuovo Iran è pronto a competere
L’Iran ha un governo sciita, come l’Iraq. L’accordo di Vienna che riporterà sul mercato la produzione di greggio e gas persiani ha garantito l’alleanza contro l’Isis.
I ribelli curdi, che attualmente sono appoggiati dagli Usa, sono di religione sunnita e osteggiati dal governo iraniano. In Siria Teheran si è sempre schierata dalla parte di Assad.
L’Iran è il quarto Paese al mondo per riserve di greggio e produzione di gas naturale e si prepara a crescere.
A differenza di quanto pianificato (sinora) da Israele e Russia, l’Iran punta ad aumentare le esportazioni di gas non attraverso pipeline (tubi) ma sotto forma di Gnl, gas naturale liquefatto.
Stando a quanto dichiarato dal direttore generale della Compagnia nazionale iraniana del gas, Hamidreza Araqi, il governo di Teheran ha giò preveisto di attivare cinque progetti di Gnl nei prossimi tre anni, incluso un impianto di liquefazione che, stando all’Agenzia Nova, è completo al 60 per cento.
L’equilibrismo dell’Arabia Saudita
L’Arabia Saudita è il maggiore produttore di greggio del coordinamento dei Paesi Opec, principale responsabile della guerra dei prezzi che ha come bersaglio gli Stati Uniti. Ryad, però, dall’estate scorsa si è schierata a fianco degli Usa contro Isis, mentre cerca di frenare l’avanzata sciita in Yemen, produttore di petrolio fuori dal cartello Opec. Sono parecchi i volontari che partono dall’Arabia per raggiungere l’Isis, e restano forti dubbi internazionali sul ruolo del regno per quanto riguarda i finanziamenti al terrorismo.
L’Arabia che basa la sua economia sul petrolio, dall’inizio della produzione statunitense di shale oil, insieme agli altri paesi Opec, ha deciso di non diminuire la produzione, causando un crollo del prezzo del greggio. La strategia dovrebbe mettere in crisi la produzione da scisto, più costosa, ma sta dando problemi a tutti i produttori tradizionali.
Nella recente Conferenza Opec del 4 dicembre a Vienna, in cui si vociferava della possibilità di stabilire delle quote e ridurre la produzione, la linea saudita ha prevalso e non ci sono stati tagli. Risultato: un calo ulteriore del prezzo, che ha raggiunto i 38 dollari a barile, il minimo da quasi sette anni.