il Fatto Quotidiano, 8 dicembre 2015
Cronaca della sera in cui Mark David Chapman uccise John Lennon
Faceva molto freddo e, sceso dalla limousine bianca, John Lennon attraversò a passi rapidi l’arco di ingresso del Dakota Building, Upper West Side, Manhattan. Alle sue spalle, con le gambe divaricate, Mark David Chapman lo chiamò: «Mr Lennon?» e poi sparò cinque volte nel buio. Era l’8 dicembre 1980. Un lunedì, poco prima delle undici di sera. Con Il giovane Holden tra le dita, lo sguardo assente, le grida disperate di Yoko Ono sullo sfondo e le sirene della polizia, l’assassino si fece ammanettare senza opporre resistenza.
Sono passati 35 anni e anche questa volta, all’incrocio con la settantaduesima, proprio come avvenne allora, si accenderanno le candele e, cantate da centinaia di persone in marcia, risuoneranno parole di pace. Le parole di Lennon. Versi così vicini e così lontani dall’ossessione del suo carnefice. Voleva diventare famosa, l’ex guardia giurata della Georgia che aveva vissuto a Honolulu. Voleva farsi ricordare il ragazzone corpulento che arrivò a New York il 6 dicembre e neanche 72 ore dopo, con la giacca sulla testa, venne tradotto in prigione dove vive ancora oggi, tra pentimenti, conversioni, propositi letterari e richieste – regolarmente respinte – di libertà condizionata. Sulle bancarelle improvvisate di una città in pieno caos pre-natalizio, Lennon è una fotografia, un santino laico, un tributo promesso dalle insegne luminose di un teatro, un’ipotesi di resistenza amorosa all’odio, un filo tra i grattacieli illuminati con i colori della bandiera francese, l’America, l’Europa. Transenne, casino, lavori in corso, stralci del discorso di Obama contro il terrorismo che scorrono sulle televisioni.
Di tutto questo, Mark David Chapman, sapeva poco o nulla. Aveva un piano. Lo mise in pratica. In quei tre giorni, da James Taylor al figlio di Lennon, Sean, incontrò molte persone. Sostò a lungo tra Central Park e l’ingresso del Dakota. Parlò con il portiere del palazzo, si informò dei movimenti del cantante, vagabondò per la città, andò a puttane, cambiò due alberghi e allo Sheraton, tra l’ottava e la cinquantaduesima, dove dormì la notte del sette dicembre 1980, lasciò anche un altarino sulla scrivania per spiegare nessi e ragioni del suo gesto. L’8 dicembre, nel tardo pomeriggio, Mark Chapman e John Lennon vennero anche immortalati insieme dal fotografo Paul Goresh in uno scatto passato alla storia. Sulla porta del Dakota, Lennon firma la copia di Double Fantasy e poi la restituisce a Chapman: «Tutto qui?». Lui lo guarda protetto dagli occhiali. Non risponde. Annuisce. Si carica. Prova ad abbordare una ragazza. Viene respinto. Alle 22:51 spara a Lennon. Un colpo perfora l’aorta del cantante. «I was shot», dice soltanto e poi si accascia.
Arrivano due agenti, Peter Cullen e John Spiro. Devono valutare in un istante cosa fare e decidono di agire. Caricano Lennon sulla loro macchina. Corrono al Roosevelt Hospital. A soli tredici isolati. Lennon ci arriva in condizioni disperate.
Muore alle 23:07 mentre i notiziari di tutto il mondo rimandano le immagini di un angolo di New York recintato dai nastri verdi della polizia. Ragazzi e ragazze che piangono, pregano, cantano. Negli anni, ruminando dietrologie, ricostruzioni assurde e improbabili complotti reaganiani volti a eliminare una voce scomoda, sull’omicidio di John Lennon è stato scritto, detto e girato di tutto. Anche un film canadese, Let him be secondo cui Lennon sarebbe ancora vivo, si chiamerebbe Mark Staycer e sotto le mentite spoglie di un sosia (dalla somiglianza effettivamente impressionante) vivrebbe felice e finalmente lontano da tutto. Fantasie. Proiezioni. Follie non troppo dissimili da quella che animarono Mark David Chapman. «Sai cosa hai fatto?» gli chiese il signor Perdomo, il custode del Dakota, il portiere di turno che per primo vide cadere Lennon a terra. E Chapman, imperturbabile: «Ho sparato a John Lennon».
A Central park, tra gli scoiattoli, i colori di un autunno particolarmente mite e i turisti impegnati nell’arte del selfie nella corsia riservata ai bikers: «It’s not the best place for a photo», New York aspetta la celebrazione laica di un momento che ogni anno ripropone la propria liturgia. Il pellegrinaggio allo Strawberry fields memorial. I fiori. Gli omaggi. La sensazione che l’irreversibile possa tornare reversibile. In un bel film passato al Sundance del 2007, Chapter 27, un irriconoscibile Jared Leto, ingrassato di almeno trenta chili, interpreta Chapman: «Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io». Gli homeless ai bordi della strada si scusano per il loro aspetto: «I apologize for my appearance» e chiedono monete. L’8 dicembre del 1980, in tasca, Chapman aveva centinaia di dollari. Sono ingialliti come i ricordi. Pezzi di carta inutili. «In god we trust» c’è scritto, perché un tempo c’era ancora qualcosa in cui credere davvero.