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 2015  dicembre 08 Martedì calendario

Che palle questa storia del populismo, scrive Travaglio

Che palle questa storia del “populismo”. Ogni volta che qualcuno sgradito all’establishment vince le elezioni, i giornaloni innestano il pilota automatico e gli danno del “populista”. È un modo puerile, stantio e ridicolo per esorcizzare i problemi lanciando allarmi che non raccoglie nessuno, auspicando mobilitazioni cui non partecipa nessuno, agitando spauracchi che non spaventano nessuno. Come negli anni 70, quando chiunque dissentisse dal pensiero unico sinistrorso era un “fascista”. Ora è populista la destra di Marine Le Pen che vince le Regionali francesi nanizzando i noti giganti Hollande e Sarkozy, che con il loro malgoverno le hanno servito la Francia su un piatto d’argento con la collaborazione straordinaria del Califfo. Populiste sono le sinistre Podemos in Spagna e Syriza in Grecia, che osano vincere le elezioni contestando le politiche della Troika Ue e dei governi nazionali sottostanti. Populisti sono, ci mancherebbe, i nostri 5Stelle perché si dicono alternativi alla destra, al centro e alla sinistra che ci hanno amministrati così bene in questi vent’anni.
Ciò che non si comprende si tenta di cancellarlo con slogan squalificanti e si allestiscono innaturali ammucchiate destra-centro-sinistra (larghe intese e Nazareni in Italia, union sacrée gollisti-socialisti in Francia) senz’accorgersi di fare il gioco del nemico, che infatti ci marcia. La verità è che i partiti e i movimenti cosiddetti “populisti”, giusti o sbagliati che siano i loro programmi, sono semplicemente “popolari”. Prendono voti intorno a un’idea diversa di politica che nessuno sa se riusciranno a realizzare, ma che molti vogliono comunque provare, stanchi di chi rumina e riciccia sempre le stesse ricette fallite e strafallite. Ricette che, fra l’altro, sono altrettanto o addirittura più populiste dei populismi che dovrebbero combattere. Che cos’è, infatti, il populismo se non il far balenare continuamente al popolo un futuro radioso con soluzioni tanto accattivanti quanto impraticabili? L’Italia, salvo brevi parentesi di serietà (il quinquennio degasperiano), è sempre stata governata da populisti. Il centrosinistra partì bene con il boom economico e finì malissimo col trionfo della spesa e del debito pubblico incontrollati, dell’inflazione à gogo, dell’industria assistita, dello Stato mamma e mammella, dell’evasione fiscale e contributiva di massa, delle pensioni baby, dei falsi invalidi e dell’assenteismo usati come ammortizzatori sociali, della corruzione e del voto di scambio elevati a sistema.
Quel modello iper-populista non poteva durare all’infinito. Infatti ci presentò il conto nel 1992, con Tangentopoli, appena il crollo del muro di Berlino spazzò via l’alibi dell’anticomunismo e il Maastricht ci impose un minimo di decenza nei conti. I pochi politici-formica che avevano provato a frenare le cicale, da La Malfa a Malagodi e in parte a Berlinguer, passarono per cassandre menagramo, gufi condannati all’irrilevanza elettorale. Anche la cosiddetta Seconda Repubblica (invenzione consolatoria, dunque iperpopulista) è stata quasi sempre dominata dal populismo, a parte la prima parentesi del governo Prodi-Ciampi. Il Berlusconi del “fate il cazzo che vi pare come me”. Il Bossi della secessione padana, della devolution e altre supercazzole irrealizzabili, ma molto gradite nelle valli della Bergamasca, della Bresciana e del profondo Veneto. Il D’Alema della Bicamerale e della Grande Riforma. Il Veltroni del blairismo all’amatriciana fuori tempo massimo. Il mito salvifico dei tecnici e dell’austerità (per i soliti noti, non per le banche e le imprese rimpinzate di miliardi) made in Napolitano. Tanti Buffalmacchi che allettavano con l’elitropia milioni di Calandrini, più o meno complici. E ora, all’improvviso, chi li ha sostenuti, leccati e coperti lancia l’allarme “populismo”, come se fosse una novità dell’ultim’ora.
In un commento di rara comicità su Repubblica, Stefano Folli – lo stesso che ancora nel 2008 esaltava sul Sole 24 Ore la “modernità” di B. e Bossi – paragona il Front National alla Lega, a quel che resta di Forza Italia e naturalmente ai 5Stelle, atterrito dall’“effetto trascinamento del voto francese” sulle prossime Amministrative italiane. Come se Renzi, finto rottamatore e vero riciclatore di tutti i peggiori fiaschi d’Italia (ancora più evasione per tutti, ancora grandi opere e persino il Ponte sullo Stretto) e d’Occidente (è addirittura blairiano), non fosse il più populista di tutti. O almeno alla pari con Salvini, che ha archiviato le supercazzole bossiane per inventarne altre, egualmente impraticabili (fuori gli stranieri e gli zingari, dazi doganali, frontiere chiuse, muri dappertutto a difesa di piccole patrie sempre più vecchie e desertificate, ronde di pensionati padani in andropausa armati di mitra per spararsi sui piedi e, naturalmente, presepe obbligatorio a prescindere da Gesù). E molto più dei 5Stelle, le cui parole d’ordine – lo ricordano spesso Piero Ignazi e Barbara Spinelli – sono quasi tutte improntate all’austerità, al risparmio, al riuso, alla decrescita, alla legalità e all’ecologia: molto più simili alla predicazione millenarista e piagnona di un Savonarola che al populismo renziano, basato sulle magnifiche sorti e progressive della crescita, dello sviluppo e dei consumi di qui all’eternità. Il comun denominatore fra 5Stelle e Le Pen non è che siano populisti: è che sono popolari, perché non hanno mai governato né fatto compromessi con le vecchie classi dirigenti fallite e sfiatate che vagano per l’Europa tentando di sopravvivere a se stesse, in attesa che qualcuno le avverta che sono morte da un pezzo.