Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  dicembre 10 Giovedì calendario

La solitudine degli oggetti. De Chirico in mostra a Ferrara

«L’atelier del metafisico ha dell’osservatorio astronomico, dell’ufficio dell’intendenza di finanza, della cabina di portolano». Scriveva così Giorgio de Chirico su Cronache d’attualità, scottato dalle critiche negative alla sua prima personale romana presso la Casa d’Arte Bragaglia (fino ad arrivare a quel Dio ortopedico, il celebre articolo-saggio di Roberto Longhi). È un identikit redatto a difesa del suo mondo chiuso dentro i confini del sogno, in bilico tra cielo e terra, senza stropicciamenti del tempo, con oggetti che apparivano come miraggi galleggianti nella luce, quella tagliente delle prime ore del pomeriggio. A visitare la mostra di Ferrara, in realtà, quell’atelier a cui fa riferimento l’artista di Volos, rimanda soprattutto a una pasticceria onirica – almeno nella sala che inaugura il percorso immersivo nella Metafisica – dove su mensole rovesciate in verticale, che sfidano la forza di gravità, troviamo attaccati dolcetti e biscotti tipici della zona. Presenze inquietanti al pari dei manichini «geometri» o delle architetture senza fronzoli che si spalancano verso piazze deserte. Sono zoom sul quotidiano, piccoli quadri che il pittore preferì al grande formato per necessità spaziale.
Non era arioso il luogo dove poteva lavorare de Chirico in quegli anni ferraresi: dopo gli orari di ufficio, tornava a casa e dipingeva con mezzi di fortuna. D’altronde era stato inviato in quella città insieme al fratello Alberto Savinio dopo essersi arruolato nell’esercito. Il destino gli aveva riservato però altre strade da percorrere: de Chirico non divenne un valoroso combattente della Prima guerra mondiale e passò quei tre anni militari – dal 1915 al 1918 – conducendo una esistenza tranquilla al di fuori della Storia vera, sprofondato dentro l’arte e se stesso. Anche i mesi di reclusione in ospedale, a villa del Seminario, per inabilità alla vita da soldato, invece di gettarlo nella disperazione, germinarono con prosperità e avviarono un breve ma intenso sodalizio con un altro «riformato», l’ex futurista Carlo Carrà.
Fino al 28 febbraio del 2016, Palazzo Diamanti di Ferrara ospita la mostra dedicata a quel particolare periodo dell’artista, coinvolgendo le sue opere – prodotte proprio in quegli anni – in una rete di consonanza con altri «visionari» suoi contemporanei, operativi oltre confine, da Ernst (presente con diversi lavori fra cui il raro e bellissimo Giustizia e macelleria) fino a Dalì, passando per Magritte: il pittore belga rimase sempre convinto che solo nei quadri di de Chirico lo spettatore potesse ritrovare «il silenzio del mondo». In casa, invece, «giocava» Filippo De Pisis che fu un ottimo «cicerone» tra le vie ferraresi, rispolverando – ad uso e consumo della fantasia dei due fratelli – aneddoti, storie e tradizioni fino al Medioevo.
La rassegna, a cura di Paolo Baldacci e Gerd Roos, organizzata dala Fondazione Ferrara Arte e dalla Staatsgalerie di Stoccarda, in collaborazione con l’Archivio della Metafisica, ha una marcia in più rispetto le tante esposizioni incentrate sui rebus dechirichiani: riporta cent’anni dopo, nel loro luogo d’origine, proprio lì dove nacquero, un corpus di opere disperse in vari musei del pianeta. E punta sul ritmo esistenziale malinconico della vita di provincia che allora respiravano e riproducevano i due artisti. A Ferrara, oltretutto, Savinio spedì in soffitta tutti i sogni musicali per dedicarsi esclusivamente alla produzione letteraria, cosa che avrà non poche ripercussioni sui quadri di de Chirico, in una stretta affinità elettiva che poi non ebbe più eguali.
Se si escludono così i capolavori, le «icone» della Metafisica – quel canto nostalgico di città e abitanti colti da straniamento improvviso, come una paralisi dell’energia vitale, un freezer emotivo – le opere allestite nel percorso (le sale sono ordinate secondo focus tematici più che cronologici) ci svelano un de Chirico «sentimentale», che procede verso i Merzbau alla Schwitters, accumulazioni di reperti della memoria che costruiscono architetture casuali eppure affettive. Al centro, ad occupare linee di fuga sciolte dalla trappola razionale del Rinascimento, ci sono spesso scatole, biscotti, carte geografiche mute, squadre realissime per misurare spazi immaginari, rocchetti di filo.
A Palazzo dei Diamanti, Giorgio de Chirico appare dunque meno «disumano» e frammentario: se le architetture metafisiche dividevano gli spazi dei suoi quadri per bloccare ogni possibilità di narrazione organica, qui assistiamo ad una quinta che apre al disgelo, una sorta di «naturalismo» magico. L’indecifrabilità degli oggetti e delle assonanze che li legano fra loro rimane la stessa di sempre, ma cambia l’atteggiamento psicologico dell’autore che li mette in scena: per prendersi una pausa, per varcare la soglia del distacco emozionale, l’autore si risolve a comporre «quadri nei quadri», proponendo l’artificio teatrale come fosse un discorso sul paesaggio interiore. Un’idea che prese il volo, planando anche nelle tele di surrealisti come Dalì.
La differenza con de Chirico è che, per il pittore metafisico, quell’escamotage è un dispositivo per produrre scorci di realtà. Non importa come sono percepiti né se sfidano le leggi di gravità e sono improntati allo stupore più che all’osservazione oggettiva. Fra le sale dedicate agli «occhi» e quelle con i trompe l’oeil reiterati, il visitatore si muove leggero in una stanza degli specchi.
Una volta usciti, con il biglietto d’ingresso all’esposizione dei Diamanti, si potrà accedere gratuitamente alla mostra Il manichino e i suoi paesaggi presso la Palazzina Marfisa d’Este e all’installazione di Mustafa Sabbagh (ispirata a Savinio), al Museo civico di storia naturale.