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 2015  dicembre 10 Giovedì calendario

A che gioco sta giocando l’Arabia Saudita?

Conta di più il disegno geo-energetico o quello geopolitico? È più importante conservare il primato mondiale petrolifero, base dello sviluppo economico del paese, necessario per costruire nuove città nel deserto e posti di lavoro a una gioventù altrimenti attratta dall’Isis; oppure lo è restare alla guida del mondo sunnita, finanziando milizie, governi alleati, moschee salafite e moltiplicando i costi per la difesa? L’Arabia Saudita sembra arrivata a un bivio.
Questo lascia credere il precipitare del prezzo del barile. Le decisioni saudite, praticamente incontrastate dentro l’Opec, sembrano dettate dalle esigenze imposte dal mercato petrolifero mondiale. L’obiettivo è fermare soprattutto la crescita della produzione americana, aumentata del 16% nel 2014: 10 milioni di barili al giorno, solo due meno dell’Arabia Saudita. Poiché il costo di estrazione negli Stati Uniti è vicino ai 40 dollari al barile, più di quanto attualmente si venda sul mercato, i sauditi sono convinti di fermare prima o poi il concorrente americano. Forse non tengono conto che per raggiungere l’indipendenza dal petrolio arabo, l’opinione pubblica negli Stati Uniti – non solo Donald Trump – è disposta a pagare di più il gallone di benzina.
Nelle valutazioni saudite c’è anche il ritorno sul mercato dell’Iran, grazie alla progressiva diminuzione delle sanzioni internazionali. Ma qui la valutazione di Riad, tenacemente contraria agli accordi sul nucleare iraniano – nei modi meno evidente di quanto faccia Israele ma più pratico ed efficace – è anche molto geopolitica.
Restano tuttavia alcuni dati inconfutabili. Il petrolio assicura il 90% della ricchezza saudita e l’87 delle sue esportazioni: un altro 7% dell’export sono prodotti petrolchimici. Rispetto a due anni fa, dunque, oggi l’Arabia Saudita guadagna il 50% di meno.
Aggiungendo i consumi interni crescenti – il 58% dell’elettricità è prodotta dal petrolio – secondo i soliti studi americani piuttosto catastrofisti, fra il 2030 e il 2038 il maggiore produttore mondiale di greggio diventerà un importatore di idrocarburi. Considerando per il 2015 un deficit di bilancio al 16% del Pil, Standard & Poor’s ha abbassato a un AA- il rating del credito saudita. Sembra difficile che il paese possa mantenere i suoi tradizionali livelli di spesa: le sovvenzioni milionarie per garantire la fedeltà della popolazione al casato degli al-Saud, i programmi di sviluppo per la modernizzazione industriale, la diversificazione di un’economia così petrolifera. E soprattutto sembrano a rischio le spese per mantenere altamente ambiziose le aspettative geopolitiche nella regione. L’intervento militare nello Yemen, per esempio, è una delle cause di un deficit fiscale che nel 2015 crescerà fino a 38 miliardi di dollari.
Il dubbio fra il primato petrolifero o quello geopolitico e religioso non è tuttavia così amletico. Nella letteratura saudita, posto che ce ne sia una oltre i testi dedicati alla fede islamica, non esiste uno Shakespeare. Altri due o tre dati economici spiegano che il paese può continuare ad essere una cosa e l’altra.
Il costo medio di estrazione del barile saudita è attorno ai 5 dollari, Riad può reggere altre sorprese del mercato; nonostante il deficit crescente, il surplus fiscale di 400 miliardi di dollari può assorbire l’impatto di altre diminuzioni dei prezzi; infine l’Arabia Saudita non ha un fondo sovrano come gli altri regni ed emirati del Golfo. Ma nel 2014 possedeva nel mondo, in gran parte negli Stati Uniti, assets per 737 miliardi: quest’anno scenderanno a 707 ma è sempre una cifra cospicua per continuare a dominare il mondo del petrolio e l’Islam sunnita.