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 2015  dicembre 10 Giovedì calendario

Il colore dei petrodollari

La geopolitica dell’oro nero è paradossale: ora sono in guerra potenze piene di petrolio che si vende in saldo sui mercati. Tutti i protagonisti principali del conflitto del Siraq sono grandi produttori. L’Iran, capofila del fronte sciita, l’Arabia Saudita, guida dei sunniti, gli Stati Uniti e la Russia.
Teheran è alleata di Mosca – una repubblica islamica insieme alla superpotenza cristiano-ortodossa – gli Stati Uniti, simbolo delle libertà occidentali, sono da oltre 70 anni i grandi protettori delle monarchie del Golfo, stati ultra-conservatori e nel caso dei sauditi l’emblema di una versione dell’islam ancora più retrograda di quella sciita iraniana.
Di questi Paesi solo gli Stati Uniti sono una democrazia, gli altri sono governati da forme più o meno spinte di autoritarismo. Le petro-monarchie, poi, sono proprietà di una famiglia, dinastie assolutiste dove non si svolgono elezioni e che appaiono persino più anacronistiche del Califfato di Al Baghdadi. Sono però clienti delle maggiori industrie belliche americane ed europee, azionisti delle nostre imprese e grandi investitori finanziari. Gli introiti del loro petrolio in parte tornano indietro perché sono clienti di primordine. E legati a doppio filo. Alcuni di queste pseudo-nazioni sono nate dopo che i loro fondi di investimento furono insediati a Londra negli anni Cinquanta: «prima dateci i soldi e poi avrete anche uno stato», era la regola dei britannici.
Gli Stati Uniti e gli europei hanno accettato per decenni che fossero parte integrante del sistema. Ci guadagnavamo, eccome. Abbiamo persino fomentato le loro guerre per rimpinguare i fatturati. Basti pensare al conflitto del Golfo dell’80 quando Saddam attaccò l’Iran con il sostegno delle monarchie del Golfo: stringevamo le mani a Saddam pur di vendere aerei che neppure decollavano. Alla fine il raìs iracheno, indebitato fino al collo e con il prezzo del petrolio ai minimi, pensò di saccheggiare il Kuwait degli Al Sabah. Fu una manna: nella guerra che seguì gli americani guidarono una coalizione universale contro il raìs (c’era anche Hafez Assad) e con perdite minime piazzarono armi e Patriot a tutto il Medio Oriente.
Era una joint venture che funzionava. In Afghanistan con i soldi dei sauditi la Cia aveva montato la più grande operazione bellica della storia: sconfiggere l’Armata Rossa con i mujaheddin islamici. Peccato che uno dei soci dell’impresa, Osama bin Laden, poi si sia risentito di essere messo da parte e abbia organizzato l’attentato delle Due Torri.
È stato così che si è finiti nel 2001 in Afghanistan e poi nel 2003 in Iraq. Dopo 14 anni l’Afghanistan è ancora in preda alla guerriglia dei talebani mentre l’Iraq è un nazione monca, una parte i curdi, un’altra agli sciiti e un pezzo al Califfato. Gli americani non sanno che farsene ed è per questo che la guerra all’Isis non è mai partita seriamente.
Ma il petrolio finanziava tutto, come la cocaina inebriava di dollari i “bravi ragazzi” nei film di Scorsese. Si poteva farne a meno? Nell’ottica dell’Occidente bastava che gli arabi continuassero a spendere da noi e questo già era sufficiente come un indicatore di salutare benessere. In realtà sapevamo perfettamente che era artificiale. L’oro nero può comprare armi, prodotti, servizi, persino degli eserciti mercenari, ma non una ragione di esistere.
Per questo le monarchie petrolifere hanno cominciato a foraggiare i jihadisti, per contrastare movimenti meno feroci ma più popolari come i Fratelli Musulmani che ne contestavano la legittimità. Per altro pronti a usare anche questi come ha fatto il Qatar in funzione anti-saudita. Assad era il nemico perfetto.
La Siria il terreno ideale per una guerra santa.
Confina con Paesi ribollenti – Turchia, Libano, Iraq, Israele, Giordania – la popolazione è a maggioranza sunnita ma comandata da una minoranza, gli alauiti, ritenuta eretica, alleata dell’Iran e degli Hezbollah sciiti libanesi. L’insurrezione era una sorta di tempesta perfetta per creare un nuovo Libano o un altro Afghanistan, con padrini esterni di ogni provenienza, arabi, turchi, potenze occidentali e orientali.
Già da tempo il dipartimento di Stato Usa sapeva che milioni di dollari affluivano ai gruppi qaedisti e poi al Califfato da Arabia Saudita, Qatar, Kuwait (Country report on Terrorism, 2013), ma Washington aspettava che facessero fuori Assad da soli. L’intervento di Putin ha tolto la speranza di una vittoria e l’Iran, che aveva dovuto rinunciare al nucleare, adesso ha un alleato con l’atomica: gli americani devono salvare la faccia dei loro impresentabili alleati, che sono anche nostri clienti. Raschiando il fondo del barile affiora tutta la miseria della geopolitica del petrolio.