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 2015  dicembre 10 Giovedì calendario

Lunga intervista al presidente Mattarella su Isis, guerra, Giubileo e Consulta

Presidente Mattarella, lei sedeva in prima fila a San Pietro per l’apertura della Porta Santa. Quali pensieri ha fatto in quei momenti sulle ipotesi di attentati terroristici in Italia con l’inizio del Giubileo?
«In questo periodo, ormai da anni, il pericolo è, purtroppo, presente come abbiamo visto a Parigi e, prima ancora, a New York, a Londra, a Madrid, a Tunisi e in tanti altri luoghi di continenti diversi. Tutti eventi tragici che hanno ricondotto alla nostra memoria Piazza Fontana o la Stazione di Bologna e che manifestano la non prevedibilità dei bersagli degli assalti omicidi del terrorismo. Una sala concerti o un bistrot non sono collegabili ad alcun significato religioso».«Non è possibile, peraltro, chiudersi in casa o rinunziare a vivere con pienezza: sarebbe anche un errore e un successo dei terroristi. Inoltre costoro, vedendo che riescono a condizionare i nostri comportamenti, potrebbero sentirsi indotti a moltiplicare gli attentati. Le nostre Forze di Polizia e i nostri servizi di intelligence stanno svolgendo un buon lavoro, serio e accurato, per garantire la sicurezza dei nostri concittadini e dei turisti e dei pellegrini che vengono in Italia. Dobbiamo aiutarli evitando che si creino tensioni o sacche di emarginazione che potrebbero aumentare i rischi».
In quanto comandante supremo delle Forze Armate, qual è la sua opinione sull’intervento militare anti Isis in corso in Siria e in Iraq?
«L’azione per sconfiggere Daesh, il cosiddetto Isis, va condotta su più piani. È importante quello culturale. Non dimentichiamo che il reclutamento, nelle città d’Europa, avviene mediante la predicazione, diretta e soprattutto via web: dobbiamo contrapporre a questa predicazione argomenti e indicazioni che facciano comprendere a giovani che ne sono destinatari quanto sia preferibile vivere nella tolleranza, nel rispetto degli altri, nella convivenza in pace. Naturalmente è necessaria un’azione di polizia che garantisca, in maniera efficace, prevenzione e repressione: di fronte alla gravità del pericolo occorre disporre di strumenti adeguati, e sia in Italia che nell’Unione Europea ne sono stati apprestati. Quel che andrebbe assicurato in misura molto maggiore è una piena collaborazione dei servizi di intelligence dei vari Paesi: la tentazione di tenere le informazioni per sé è tradizionalmente molto forte ma il vantaggio che ciascun paese otterrebbe dal conoscere le informazioni di tutti gli altri sul terrorismo sarebbe di gran lunga più conveniente ed efficace. Infine, ma non per ultima, è certamente necessaria una risposta militare per annullare le basi di leadership e organizzative del terrorismo. L’Italia lo sta facendo da tempo, in tanti teatri di operazione».
Il premier Renzi ha ripetutamente affermato che il nostro Paese non parteciperà direttamente ai raid: non c’è il rischio che l’Italia con questa posizione si autoemargini sulla scena internazionale?
«Non ne vedo le condizioni. Nelle due riunioni di quest’anno del Consiglio Supremo di Difesa abbiamo attentamente esaminato le situazioni di crisi e la linea espressa dal governo è pienamente in linea con quanto valutato in quella sede. Ma credo che sia utile ricordare alcuni dati di fatto. L’Italia è presente con quasi settecento militari in Iraq, secondo contingente dopo quello Usa, nel teatro anti Daesh: quattrocento sono dell’Aeronautica e fanno, da oltre un anno, con quattro tornado ricognitori e un aereo rifornitore, quel che la Germania, nei giorni scorsi, ha opportunamente deciso di iniziare a fare. Altri duecento militari sono impegnati a Erbil come addestratori di peshmerga curdi e ottanta addestrano forze di polizia irachene. Siamo, inoltre, presenti in Afghanistan, dove pure si fronteggiano fondamentalisti legati ad Al Qaeda, con ottocentocinquanta militari: anche qui il secondo contingente dopo quello USA. Siamo presenti in Libano, con oltre millecento militari che, sotto bandiera ONU e con comando italiano, contribuiscono, in prima fila, a evitare che un Paese amico come il Libano, che già subisce gravi sofferenze e tensioni, divenga come la Siria o l’Iraq. Siamo presenti in Kossovo, con comando affidato all’Italia, con settecento militari, per evitare che le tensioni che vi permangono possano riesplodere e si tratta di un Paese dove, come è noto, affiorano da tempo venature di fondamentalismo e da dove sono partiti numerosi combattenti di Daesh verso Siria e Iraq. Abbiamo un contingente di un centinaio di addestratori in Somalia per aiutare il governo di quel Paese, tradizionalmente legato all’Italia, a controllare il suo territorio in cui è presente un pericoloso movimento di terrorismo fondamentalista. La nostra Marina militare sta svolgendo un prezioso lavoro, apprezzato dalla comunità internazionale, nei mari del Corno d’Africa, nella missione contro la pirateria che, sotto comando italiano, sta debellando quel fenomeno che ha allarmato per anni. È appena il caso di ricordare quel che la Marina sta facendo nel Mediterraneo da alcuni anni per salvare vite e contrastare i trafficanti di esseri umani, che potrebbero verosimilmente avere collegamenti almeno in parte a movimenti terroristici. Tutto si può dire tranne che l’Italia sia chiusa in se stessa, che non collabori o che si emargini: va detto, piuttosto, con soddisfazione, che alcuni Paesi hanno opportunamente deciso, oggi, di intensificare o addirittura di avviare la loro azione. Ma l’Italia lo fa, con grande sforzo, da anni: non è un caso che ben quattro missioni internazionali siano sotto comando italiano».
L’Italia potrebbe invece giocare un ruolo-chiave nella pacificazione della Libia, vista anche la Conferenza internazionale che si apre a Roma domenica 13 dicembre?
«L’iniziativa di svolgere a Roma una conferenza internazionale sulla Libia è quanto mai opportuna. Si tratta di un Paese cui siamo legati da molte ragioni e che è nostro vicino, dirimpettaio nel Mediterraneo. Da tempo siamo impegnati per contribuire a una buona soluzione pacifica delle divisioni e delle contrapposizioni armate in Libia. Abbiamo collaborato fino in fondo con l’inviato dell’Onu Léon e collaboriamo con il suo successore. Sappiamo, naturalmente, che la soluzione è soprattutto nelle mani dei libici, cui non può essere né assegnata né, tanto meno, imposta da alcuno. Una volta che, speriamo molto presto, si sia formato un governo libico di unità nazionale e questo ne faccia richiesta, la comunità internazionale avrà il dovere di aiutarlo e l’Italia, in quell’ambito, sarà la prima ad essere disponibile. Non sappiamo con quali modalità e in che misura. Si tratterà, comunque, di impegnarsi per aiutare quel popolo, nostro vicino e amico, a riprendere una vita più serena e in sicurezza, di crescita civile ed economica dopo anni di sofferenze. Dal ripristino di uno stato libico efficiente conseguirà la cancellazione di ogni tentativo di insediamento di Daesh nel suo territorio».
Presidente, come vive da cattolico il Giubileo della misericordia che si è appena aperto?
«Anzitutto, come Presidente della nostra Repubblica, guardo con grande rispetto a un evento che, con sede principale a Roma, riguarda centinaia di milioni di fedeli di ogni parte del mondo. Un evento che è stato indetto e viene guidato da una personalità cui si guarda, in tutto il pianeta, con stima e attento ascolto molto grandi. Trovo di grande significato che Papa Francesco abbia voluto anticipare l’apertura del Giubileo nella cattedrale di Bangui, da lui definita “capitale spirituale del mondo” perché quella città riassume in sé tutte le sofferenze del mondo. Per queste ragioni sono stato ieri sul Sagrato di San Pietro e sono molto lieto di esservi andato. Come credente mi rendo conto, tra gli altri aspetti, di quanto il mondo attuale abbia bisogno, senza rendersene conto, di quella misericordia che Francesco proclama e invoca. Questo sentimento lo avvertirei, peraltro, anche se non fossi credente».
Qual è il ricordo del suo primo incontro con Papa Francesco?
«Papa Francesco ha grande carisma. I suoi messaggi e le sue argomentazioni coinvolgono. Il colloquio con lui è stato, per me, un momento di grande importanza. Sono stato davvero lieto che, dopo, in pubblico, tra il suo discorso e il mio vi sia stata ampia sintonia sia quanto ai temi trattati sia quanto alle considerazioni svolte».
L’Expo è stato un grande evento organizzato con anni di anticipo ed ha avuto successo. Il Giubileo è stato deciso da Papa Francesco pochi mesi fa: Roma, l’Italia, sapranno lo stesso fare la loro parte adeguatamente? O ci dobbiamo rassegnare ad un evento meno forte rispetto ad altri Giubilei?
«L’Expo è stato un incontro internazionale tra governi, istituzioni, imprese e studiosi, basato su padiglioni di diversi stati di tanti continenti. Il Giubileo è un evento di carattere religioso, indetto dal Papa perché sia realizzato e vissuto non soltanto a Roma ma in tutte le diocesi del mondo. Non tutti i pellegrini sono quindi chiamati a Roma che, peraltro, certamente ne sarà al centro. Sono convinto che la Città e l’Italia faranno bene la loro parte: la giornata di martedì è stata una dimostrazione di organizzazione e di vigilanza all’altezza del compito».
In Italia vivono numerosi immigrati di religione islamica: c’è il rischio che la recrudescenza della violenza terroristica possa pregiudicare una serena convivenza riaccendendo intolleranza e diffidenza verso il “diverso”. Come evitare tutto questo dopo il 13 novembre?
«Nel nostro Paese vi sono ormai numerose comunità straniere, con culture o con religioni diverse: la grandissima parte delle persone di queste comunità – anche di quella islamica – ha comportamenti irreprensibili quanto a rispetto delle nostre leggi, a lavoro, a legame anche affettivo con l’Italia. Spesso contribuiscono alla conoscenza e alla simpatia nei confronti del modello di vita italiano nei rispettivi Paesi di provenienza. Escludo che possa formarsi un sentimento collettivo di diffidenza o addirittura di intolleranza nei confronti di nostri concittadini o di immigrati di fede islamica: sarebbe estraneo al carattere e alla cultura degli italiani. Va ricordato, comunque, che questo è uno dei desideri dei terroristi del fondamentalismo: provocare l’isolamento e l’emarginazione delle comunità islamiche d’Europa perché queste si sentano assediate e sia più facile per la predicazione di odio e di violenza trovare terreno fertile e qualcuno che si faccia reclutare. Anche per questo sono state importanti le iniziative assunte dai rappresentanti religiosi delle comunità islamiche italiane contro il terrorismo. Naturalmente è necessario che i predicatori di violenza vengano isolati e denunciati dalla stesse comunità. Inoltre vi è bisogno, da parte delle istituzioni, di una lungimirante e concreta politica di integrazione che realizzi una convivenza serena ed eviti la formazione di ambienti separati e diffidenti».
Come valuta la decisione di alcune scuole di non celebrare quest’anno il Natale proprio per timore di “scontentare” le famiglie non cristiane?
«A me sembra che sia stata regalata una eccessiva risonanza a un paio di episodi sporadici e tutt’altro che rappresentativi del nostro Paese, dove la quasi totalità di persone, famiglie, scuole pensa che mantenere le tradizioni storiche e culturali italiane rivesta valore positivo e non costituisca affatto un’emarginazione di italiani o immigrati di altre culture o di altre fedi religiose. Le nostre tradizioni storiche e culturali, senza forzature e senza imposizioni di alcun genere, possono, al contrario, contribuire a far comprendere loro meglio il Paese in cui hanno scelto di vivere».
Presidente, al centro degli aspetti cruciali che stiamo trattando ci sono Roma e il suo ruolo. Come ha vissuto questi mesi di difficoltà tra scandali e scontri politici? E soprattutto: pensa che la città abbia nel suo dna le energie per ripartire? E come?
«Conosco bene Roma, vi ho abitato da giovane durante gli anni della scuola e dell’università, e negli ultimi trent’anni ho vissuto tra Roma e Palermo. Da gennaio scorso sono stabilmente romano. Come tutti coloro che vi vivono o vi lavorano provo grande apprensione di fronte alle difficoltà della città. Roma è ben più di una capitale. È un punto di riferimento nel mondo intero non solo dal punto di vista religioso, ma anche da quello storico, da quello culturale, da quello artistico. Roma ha sempre avvertito un orizzonte universale. Chi sarà scelto dagli elettori per amministrare Roma, dopo il lavoro svolto dal Commissario, dovrà continuare nell’impegno di colmare il divario esistente tra questo ruolo mondiale dell’Urbe e la sua struttura amministrativa. I grandi eventi sono certamente occasioni preziose per fare il punto sullo stato di una città e per programmare interventi. Ma credo che quel che è più importante sia il lavoro di tutti i giorni, quello svolto fuori dai riflettori dei grandi avvenimenti, il rafforzamento di un tessuto sociale in difficoltà, l’ordinaria manutenzione, l’efficienza degli uffici, l’impegno delle energie più vive presenti nella città. Questa opera quotidiana, decisa e paziente, potrà restituire a Roma la condizione adeguata per svolgere il suo ruolo».
Il Parlamento non riesce da oltre un anno e mezzo ad eleggere i giudici della Corte Costituzionale. L’accordo politico tra i gruppi viene sistematicamente disatteso nel segreto delle urne. Qual è la sua valutazione, si è impoverito il ruolo del Parlamento?
«In passato si è verificato qualche caso di lungo ritardo nell’elezione di giudici della Corte ma si trattava di sostituire un solo giudice. Questa volta ne vanno eletti tre e il problema è molto più serio; e più grave. La mancanza di tre giudici incide molto sulla funzionalità della Corte Costituzionale e questo vuoto non può continuare. Inoltre, la Costituzione prevede una composizione articolata ed equilibrata della Corte: cinque scelti dal Parlamento, cinque dal Presidente della Repubblica, cinque dalle magistrature. La mancanza di oltre la metà dei giudici di una componente altera l’equilibrio voluto dai Costituenti e questa condizione aggiunge un ulteriore aspetto di gravità allo stallo che si registra. Non si tratta di impoverimento del Parlamento ma ogni passaggio a vuoto incide negativamente sulla sua autorevolezza e sulla valutazione della sua capacità di funzionamento».
Dal giorno della sua elezione al Quirinale è stato subito chiaro il modo diverso di intendere il suo ruolo rispetto al suo predecessore: pochi interventi su temi specifici. È corretto dire che dopo anni di emergenza politico-istituzionale è finita la supplenza del presidente della Repubblica?
«Ciascuna persona ha, naturalmente, il proprio carattere, il proprio modo di esprimersi, le proprie sensibilità. Io non ho mai pensato di dovermi distinguere dall’interpretazione del ruolo espressa da Giorgio Napolitano, la cui presidenza merita grande riconoscenza da parte degli italiani. Va detto, piuttosto, che mutano le condizioni che attraversano i periodi dei mandati presidenziali, che sono sempre volti ad assicurare il corretto funzionamento del sistema costituzionale evitando che questo possa incepparsi. Cambiano soprattutto le esigenze del Paese nelle stagioni che si susseguono: la priorità, oggi, a me appare quella di far riacquisire ai nostri concittadini un pieno ritrovamento del senso del vivere insieme, del sentirsi parte di un comune percorso sociale, di una comune prospettiva di sviluppo».