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 2015  dicembre 10 Giovedì calendario

Riapre il rifugio indiano dei Beatles. Consigli turistici

Forza o farsa, il ritiro indiano dei Beatles resta leggendario. È qui che arrivarono nel febbraio del 1968, con il codazzo di mogli, compagne e amici, per imparare la meditazione trascendentale dal Maharishi Mahesh Yogi, andandosene via con un bottino di canzoni memorabili. La zona è rimasta in stato di abbandono da fine anni ’70, è stata espropriata dal governo indiano negli anni ’90, e ora torna finalmente a vivere come attrazione turistica. In realtà lo è sempre stata, perché i nostalgici non hanno mai smesso di sgusciare fra i ruderi e di eleggerla luogo di pellegrinaggio, ma la struttura era in rovina, pericolosa, e andava bonificata. Martedì le autorità locali hanno riaperto l’area di 18 acri, dopo averla ripulita e ornata con aiuole e panchine di contemplazione, e i lavori non sono ancora terminati. Presto sarà introdotto un sentiero per camminare nella riserva delle tigri del Rajaji National Park, sorgeranno una caffetteria e un negozio di souvenir. Le vecchie grotte della meditazione a forma di uovo (che ispirarono il brano “I Am the Eggman”) manterranno l’aspetto rustico, la sala di yoga con i graffiti dipinti dai fan diverrà una sorta di museo e il biglietto d’ingresso all’intera area costerà circa 9 euro per gli stranieri, meno di 2 per gli indiani.
LA TRASCENDENZA
L’ashram, nome ufficiale “International Academy of Meditation”, si trova nei pressi di Rishikesh, 150 miglia da Nuova Delhi, in una posizione particolarmente “energetica”, tra il Gange e l’Himalaya. Era nato cinque anni prima dell’arrivo della delegazione beatlesiana e appariva piuttosto lussuoso, proprio per incontrare i gusti occidentali. I quattro ci erano andati per espandere la coscienza, perché non potevano fare uso di droghe per sempre e l’LSD non poteva essere l’unica via per la trascendenza. Su consiglio di Harrison, già amante del sitar e della cultura indiana, incontrarono il guru a Bangor, nel Galles, insieme a Mick Jagger e Marianne Faithfull, ne subirono il fascino e accettarono il suo invito in India, insieme a Mia Farrow, la sorella Prudence, Donovan, Mike Love dei Beach Boys, un giornalista e altri. Una sessantina di persone in tutto, vestite col tipico sari, pronte a seguire le lezioni in circolo e a mangiare cibo vegetariano.
Dovevano restare tre mesi, invece Ringo Starr e consorte se ne tornarono a casa dopo dieci giorni, non sopportando insetti e cibo piccante, Paul McCartney resistette un mese, John Lennon e George Harrison trascorsero qui sei settimane. Inizialmente Lennon dormiva con la moglie Cynthia, dalla quale si allontanò non appena iniziò a ricevere lettere da Yoko Ono, e con George sembrava il più entusiasta dell’esperienza mistica, salvo poi realizzare che quel santone era un po’ cialtrone, troppo interessato ai soldi e per niente casto. Forse ci aveva provato anche con la Farrow, o forse quest’accusa fu il pretesto di John per correre dall’altra fiamma orientale. Fatto sta che ad aprile i celebri ospiti mollarono l’ashram e, quando il Marahishi chiese il motivo della partenza improvvisa, Lennon rispose: “Sei tu quello cosmico, dovresti saperlo”.
LE TRISTEZZE
Il Marahishi stesso lasciò l’India a causa di questioni fiscali, e si trasferì in Olanda, dove morì nel 2008. Lennon disse in seguito: «Non importa cosa mi aspettassi laggiù. Tutti sorridevano e in quel posto ho scritto alcune delle mie migliori canzoni. È paradossale che in un momento bello, in cui meditavo otto ore al giorno, ho creato anche le cose più tristi, tipo “Yer Blues”. Segno che niente è costante, nessuno è solo gioioso e sfugge al dolore. Non esiste l’assoluto. Siamo Yin e Yang».
Aveva ragione, l’esperienza non fu inutile. Da lì riportarono oltre 40 canzoni, da “Dear Prudence”, scritta per la sorella di Mia che soffriva di attacchi di panico e non usciva mai dal bungalow, a “Ob-La-Di, Ob-La-Da’”, da “Sexy Sadie”, sulla delusione per la guida spirituale a “Back in the USSR”, da “I’m So Tired” (Lennon per tre settimane dormì pochissimo) a “Why Don’t We Do it in the Road”, ispirato alle scimmie che copulavano in strada parte, e parte di un capolavoro intitolato White Album.