La Stampa, 10 dicembre 2015
Orologi, treni a vapore, tute spaziali, manoscritti di Toulouse-Lautrec: la casa di Franco Artom è un teatro delle meraviglie
In quello che era un ufficio ha costruito il teatro delle meraviglie, non un museo ma una Wunderkammer, l’opera scenografica e compiuta di una vita da collezionista. Franco Artom siede alla scrivania, ed è come se assistesse a un balletto in via Montenapoleone, al centro di Milano. Intorno a lui silenzio e modellini di treni, di auto, strani oggetti che si rivelano per antiche bollatrici da fabbrica o fucili da addestramento, e soprattutto i protagonisti più stupefacenti della collezione: tute spaziali, russe e americane, che hanno viaggiato sulle navicelle e ora paiono immobilizzate all’improvviso in un complesso cerimoniale di accoglienza.
«A me interessa stare bene qui dentro e invitare delle persone», dice quasi schermendosi, con un sorriso che non è ironico ma si direbbe innocente. Ha superato l’ottantina, e con i suoi oggetti ha un rapporto che pare adolescenziale. Sa di possedere una collezione unica al mondo, ma non è che la faccenda lo emozioni troppo. «Il raccogliere e il collezionare comportano un impegno completo, bisogna avere delle idee, e scegliere tra il bello e il brutto», dice aprendo una piccola alcova dove non ha mai dormito e non dormirà nessuno, e dove un grande modello di aereo firmato da Alexander Calder si adagia sul copriletto.
Alle pareti dell’intero appartamento manifesti pubblicitari del primo Novecento con automobili scattanti e un poco futuriste. «Me li sono quasi inventati come oggetti da collezione, proprio in rapporto alle auto. Li compravo a Parigi, tempo fa, al mercato delle pulci. Li vendeva una signora belga, ed era la sola». Quello cui forse tiene maggiormente non è però qui, ma a casa, dalle parti del Castello Sforzesco. Magnifica una certa catena da bicicletta, e fu disegnato da Toulouse-Lautrec nel 1897. Nella scrivania ci sono invece due lettere autografe dell’artista francese, in cui comunica a un amico la soddisfazione per il lavoro svolto e ben pagato. Proprio per «quel» lavoro.
Il demone collezionistico
«In questo caso, mi do un po’ di arie: le lettere e il manifesto di cui si parla, eccole insieme, una accanto all’altro». Sono stati necessari otto anni per costruire l’accoppiata, e trovare l’affiche. Ha messo alla frusta gli antiquari di tutto il mondo? «Neanche per sogno, non ho detto una parola, mi avrebbero chiesto una cifra spropositata. Ho aspettato». La pazienza è una dote collezionistica, ma lo è anche la capacità di sterzare, cambiare cavallo, dedicarsi ad altro pronti a tornare sui propri passi. Franco Artom, che ha collezionato di tutto, la possiede in modo onnivoro. E del resto è anche una tradizione della famiglia, originaria di Asti, strettamente imparentata con i Bolaffi.
«Il nonno materno, Alberto senior, creò il commercio filatelico in Italia – e intanto scriveva una grammatica dell’aramaico. Io sono quindi cugino di Alberto Bolaffi. Fin da ragazzino ho vissuto tra i francobolli, ma li consideravo cose da grandi». Trovò la sua strada coi libri prima e con le auto poi, quando giovanissimo dovette prendere in mano gli affari di famiglia. Il padre, che aveva studiato a Heidelberg e combattuto nella Grande guerra, divenne un esperto di tessuti e aprì la sua prima fabbrica con Riccardo Gualino, l’imprenditore umanista. Morì presto, la salute minata dai campi di prigionia austriaci, dove aveva rischiato la fucilazione: «Il suo tedesco gli giocò un brutto scherzo: fu accusato di essere un cittadino austro-ungarico passato agli italiani, un irrendentista come Cesare Battisti. Rischiò la condanna a morte; dovette convocare i suoi professori perché testimoniassero che era italiano», e dunque andava trattato secondo la convenzione di Ginevra.
A 24 anni Franco Artom dovette assumersi molte responsabilità. Il demone del collezionismo, però, non lo abbandonava. «A me interessavano le cose in movimento. Il primo acquisto fu un furgone Fiat per i pompieri, del 1916». Lo comprò dall’Acna di Cengio, l’industria chimica divenuta poi tristemente famosa per aver avvelenato ambiente e operai, che forniva coloranti alla sua impresa. «Era semidistrutto, lo tenevano in un magazzino». Un ferrovecchio. «Restaurarlo fu una delizia». Di lì in poi, non si fermò più: motociclette, auto d’epoca (con il fratello: la definisce una «raccolta facile»), orologi («compravo quelli che non erano di moda»), treni: tutto ciò che corre al ritmo del tempo, ma anche cioccolatiere inglesi, manifesti, opere d’arte.
I memorabilia spaziali
Per i treni si accontentò di modelli perfetti, in varie scale, realizzati su commissione da abili artigiani. In casa ha una vaporiera francamente impressionante anche per dimensioni. L’hanno costruita quattro ferrovieri torinesi, bravissimi, e ci hanno impiegati cinque anni. Ma l’insaziabile collezionista non ha rinunciato a guidare anche qualche treno «vero», su vere rotaie. «L’emozione di tirare una leva e mettere in moto il mostro, ebbene, è impareggiabile». Date queste premesse, non poteva che arrivare l’avventura spaziale.
C’è una data, il 20 luglio 1969, quando l’Apollo 11 scese sulla Luna. La intese come una chiamata, e cominciò a raccogliere tutto ciò che aveva relazione con il grande evento: lettere, manoscritti per esempio di Yuri Gagarin, il primo cosmonauta sovietico, disegni, oggetti storici, precognizioni fantascientifiche. I pezzi pregiati arrivarono negli Anni Novanta, quando dalla Russia usciva di tutto. Tramite un’agenzia californiana ebbe le prime tute, anche quella con la visiera schermata da una lamina d’oro che i sovietici (privi della tecnologia polaroid) avevano preparato per il «loro» allunaggio, mai realizzato. Buzz Aldrin, il secondo a mettere piede sulla luna dopo Armstrong, lo ha definito il più grande collezionista di memorabilia spaziali.
Nessuno come lui
Franco Artom fa spallucce. Non esiste – dice – una classifica ufficiale, anche se, musei a parte, non ha mai avuto notizia di qualcun altro che possedesse non dodici tute (come lui), ma almeno una. Si è mai chiesto quanto possono valere? «Il valore è una valutazione postuma. Non mi interessa. Mi interessa invece che tutto questo sia a casa mia». Sarà anche l’uomo dei record, ma resta un collezionista senza nevrosi, onnivoro, sorridente. Forse lo era persino durante la guerra, quando acquistava nel Mantovano testi ebraici da un libraio che li avevi salvati dopo la chiusura della Sinagoga. Non ne parla volentieri. «Tralascio le persecuzioni razziali. Una vicenda tragica va lasciata dove sta».