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 2015  dicembre 10 Giovedì calendario

Avere per papà il socio di Charles Manson

«Lei mi sembra un po’ troppo interessato alla mia vita». «Lo sono in molti». «Andiamo avanti, per favore». Avanti e indietro. Su e giù. Come uno “scivolo”, come l’Helter Skelter dei Beatles. E cioè il caos agognato dalla “Famiglia” di Charles Manson, una setta di psicopatici folgorata da quella canzone, che il 9 agosto 1969 a Beverly Hills maciullò Sharon Tate e il piccolo nel suo pancione, all’ottavo mese di gravidanza. “PIG”, “Porco”, si ritrovò scritto sulla porta di casa il marito e regista Roman Polanski, al ritorno da Londra. Lettere scarlatte, incise col sangue della moglie. Oggi l’81enne Manson marcisce nel carcere californiano di Corcoran, ama farsi fotografare con svastiche sulla fronte mentre fuori giovanissime sciroccate lo vogliono sposare, nonostante abbia macerato donne, uomini, Woodstock e i figli dei fiori. Era il 1967 quando con i suoi succubi, a bordo di un ex scuolabus sgargiante, fondò una comune scandalosa e demoniaca, ramo infetto del sottobosco hippy. Come raccontato nell’ultima serie tv Aquarius, la famiglia di Manson, tra orge, droga e stragi mostruose, sconvolse l’America e i suoi figli. Figli come Claire Vaye Watkins. Che ha un legame angusto con quelle stragi.
Claire Vaye Watkins ha solo 31 anni, ma è una scrittrice brillante. Dopo la pluripremiata raccolta di racconti Battleborn («ho avuto tanta fortuna», dice), è appena giunto in Italia il suo primo romanzo. Deserto americano (Neri Pozza) è un’opera smaliziata e sorprendente. È la storia di una coppia viandante, in una California futura, arida e inospitale, che ha svenduto tutti i sogni, anche quelli della spavalda Silicon Valley.
«Sono cresciuta nella Owens Valley, al confine del Nevada, e già allora c’era il problema della siccità, come oggi. È la fine di un lungo sogno», spiega Watkins. «La California non è più la terra promessa, non possiamo prosciugare le risorse senza pensare al futuro. Questo libro mi ha fatto capire qual è lo scenario peggiore che ci attende. Ma tutto questo è solo un pretesto per un’altra crisi, quella spirituale».
Già. Perché Claire Watkins, oltre a essere una talentuosa scrittrice, è anche la figlia di Paul Watkins, il braccio destro di Manson, morto nel 1990. Quello che gli procacciava donne per i suoi sabba sessuali, spesso creature ingenue, misere, assenti. Fu proprio suo padre, in tribunale, a spiegare la scritta Helter Skelter pennellata sul frigo di Leno e Rosemary LaBianca, massacrati 24 ore dopo le esecuzioni di casa Polanski. Secondo le torbide profezie di Manson, quella firma di sangue annunciava l’apocalisse interrazziale che avrebbe scatenato la sua macelleria itinerante. Non a caso, anche in Deserto americano c’è una setta che insegue ideali epici e sballati.
E che somiglia a quella di Manson e suo padre, vero signora Watkins?
«Papà finì nella ragnatela di Manson molto giovane, ancora adolescente. Non volevo assolutamente raccontare la sua vita scrivendo questo libro. Poi però, finita l’opera, c’era qualcosa che mi assediava, che mi tormentava. E ho capito che c’è molto di mio padre nel romanzo, insieme alla paura di essere un genitore, visto che sono diventata madre poche settimane dopo la sua uscita. Che assurda la mia vita».
In che senso?
«Sono cresciuta in un posto bizzarro, nel deserto, vicino alla Death Valley. Nel nulla, con al massimo un centinaio di persone nel raggio di decine di chilometri. Per me è stato fondamentale. E questo, paradossalmente, è stato deciso proprio da Charles Manson».
Perché?
«Fu lui a mandare mio padre nel deserto. Secondo il suo progetto, quello doveva essere il rifugio della “Famiglia” una volta esploso il caos. Ma fu proprio dopo aver obbedito a quest’ordine che mio padre riuscì a liberarsi dalla stretta di Manson. Rinsavì. E tornò a essere un uomo normale».
Cosa ricorda di lui?
«Quasi niente. Conservo una sorta di rielaborazione di amici e parenti. Ricordo bene solo il giorno in cui è morto».
Sua madre si è suicidata poco tempo dopo.
«Lei e mio padre si sono conosciuti dopo le stragi. Ho provato molto dolore nello scrivere dopo il suo addio. Ma è stato anche uno stimolo. C’è una connessione tra dolore e arte, perché il dolore ti può rendere più sensibile e vulnerabile, come è successo a me, ma anche più duro e impenetrabile, e questo in genere ti limita molto».
E suo padre lo ha cercato nel tempo?
«Moltissimo. Prima di morire di cancro ha scritto un libro, scambiato corrispondenze, inciso delle registrazioni. In tutti questi anni ho cercato di attingere il più possibile da questi materiali. Ma... ovviamente, non è come avere un vero padre. Ho cercato di sostituirlo in vari modi. Ho cercato di tornare nei posti dove ha vissuto con la “Famiglia” e cercare di percepire cosa avesse provato lui, almeno spiritualmente. Ma non è affatto facile. Oppure, ci sono i suoi video su YouTube, quando era ospite in tv».
Li guarda ancora oggi?
«Non più. Ora, rivedendoli, mi sembra tutto così artificiale. Non era lui, non si sentiva a suo agio. Preferisco immaginare quello che non ha mai detto».
Cosa ha pensato di lui quando ha scoperto che procurava le donne a Manson?
«L’ho scoperto quasi subito. A casa i segreti erano molto rari. È stato uno shock. Ho cercato di immedesimarmi in quelle ragazze. Mio padre era una persona complicata, che ha commesso degli errori. Ma non era un demonio».
Come fa a esserne sicura?
«Ma aveva solo 18 anni. A quell’età si commettono tanti errori. Una sua frase mi è rimasta impressa, tra le poche che ricordo».
Quale?
«”Non c’è niente di sbagliato nel non conoscere te stesso”».
Ha mai pensato di incontrare Charles Manson per farsi raccontare suo padre?
«Sì. Ma poi ho cambiato idea».
E perché?
«So che così perderò qualcosa di mio padre, per sempre. Ma Manson pensa solo a una cosa, come in tutta la sua vita: farsi pubblicità. E io non voglio fargli pubblicità. Non voglio».