la Repubblica, 10 dicembre 2015
Le prime candidate dell’Arabia Saudita
Nelle strade di Riad le immagini del triumvirato che da poco meno di un anno governa il paese sono onnipresenti. Il profilo di re Salman, dell’erede al trono Mohammed Bin Nayef e del giovane ministro della Difesa e vice-erede, Mohammed Bin Salman, 30nne figlio del re, è sui muri degli edifici e dei centri commerciali e persino su quelli dei grattacieli in costruzione. Nulla invece, né cartelloni né spot televisivi, annuncia l’appuntamento che l’Arabia Saudita si appresta a vivere: sabato si vota per le elezioni municipali – le uniche nel regno – e per la prima volta le donne saranno ammesse a partecipare, come elettrici e come candidate.
«Siamo un paese giovane da questo punto di vista – spiega Sheika al Sudairy – l’idea delle elezioni è ancora nuova. La sfida per chi, come noi, ha cercato di sensibilizzare sull’appuntamento, è stata ardua». Al Sudairy fa parte di Al Nahda, un’organizzazione che da anni segue le donne degli strati più poveri. Nei suoi uffici sono concentrati i cartelloni che altrove non si vedono: spiegano come registrarsi, votare e a cosa servono i consigli municipali. Difficile per ora dire quanto il lavoro dell’associazione abbia dato frutti. Il dato più scoraggiante è quello sulla partecipazione: dei 10 milioni di sauditi, solo 600mila si sono registrati per votare. Quello più incoraggiante quello sui candidati: le donne sono 900 su un totale di 6.000, un dato che supera ogni più rosea previsione.
«Vedere tante donne in prima linea è un grande successo», commenta Nora al Sowayan. Nora è una delle pioniere dell’attivismo locale: nel 1990, quando per la prima volta 47 donne si misero al volante per protestare contro il divieto di guida (l’Arabia Saudita è l’unico paese al mondo che non consente alle donne di condurre l’auto) era fra loro. E come le sue compagne ne pagò le conseguenze: i loro nomi, numeri e indirizzi vennero resi pubblici, nelle moschee più conservatrici furono additate come prostitute, per anni a molte di loro fu proibito lasciare il paese. Da allora ha visto accadere troppe cose per farsi illusioni: «Sappiamo molto bene che le questioni aperte sono tante e che il voto delle elezioni municipali può sembrare una cosa minore: ma è un passo avanti e vogliamo approfittarne», dice.
Sulla carta il ragionamento appare inattaccabile, eppure il movimento delle donne a questo appuntamento si presenta spaccato: se alcuni dei nomi più noti, come Nora, si stanno spendendo dietro le quinte e le blogger più note sono il cuore della prepotente campagna sui social che molte candidate hanno lanciato (e che potrebbe rivelarsi importantissima in un paese dove la propaganda è ostacolata dalla rigide norme sulla segregazione e dove Twitter ha la più alta penetrazione al mondo pro-capite), molte altre hanno scelto la strada del boicottaggio. «Non mi interessa prendere parte alla campagna pubblicitaria a favore dei media occidentali organizzata dal governo», dice una nota imprenditrice di Riad. «Non puoi dare alla gente marron glacés se non ha il pane. Vogliamo diritti veri per le donne, l’eliminazione del sistema del guardiano che per tutta la vita ci mette sotto la tutela di un uomo, la possibilità di viaggiare e di accedere da sole a servizi come scuola e sanità. E vogliamo il rispetto dei diritti per tutti: la libertà di parlare e di esercitare il diritto di critica. Solo allora ci importerà di votare per chi decide sugli appalti delle strade o della spazzatura». La prudenza della donna è giustificata: lo scorso anno la licenza della sua attività è stata revocata con una scusa. E anche in questa occasione le voci più critiche, come la sua, non sono le benvenute: negli ultimi giorni dalle liste sono stati eliminati senza spiegazioni i nomi delle attiviste con una storia di critiche delle politiche governative. Fra loro, quella di Loujain Alhathoul, incarcerata per 72 giorni per aver osato guidare la macchina.
«Il governo vive un momento molto delicato: è naturale che cerchi in ogni maniera di preservarsi», spiega Paul Aarts, autore del recentissimo “Saudi Arabia: a kingdom in peril”. In effetti in questi mesi le minacce alle porte del regno sembrano essersi moltiplicate: la guerra in Yemen, affidata alle mani del giovane Mohammed Bin Salman sembra essersi impantanata in una sanguinosa (e costosa) campagna che qualcuno inizia a definire “il nostro Vietnam”, la discesa dei prezzi del petrolio sta mettendo in crisi le casse dello Stato, l’arcinemico Iran ha guadagnato un posto di tutto rispetto al tavolo delle potenze mondiali e la minaccia dell’Is si fa sempre più pressante. Tredici, con 67 morti, sono stati gli attentati da inizio anno, secondo il ministero dell’Interno. E quello delle donne è un terreno fertile di propaganda per lo Stato Islamico: qualche mese fa, emerse un documento dell’Is indirizzato specificamente alle saudite in cui le si invitava a unirsi al Califfato contro un governo definito “empio”. A tutto questo si aggiunge l’avvento di una nuova leadership e la tensione crescente con il resto del mondo sui temi dei diritti umani e del sostegno all’estremismo.
Sarà per questo che i dilemmi elettorali non sembrano aver scosso gli animi dei sauditi, intenti come sempre a fare shopping nei grandi mall o a interrogarsi su questioni proibite in cene a porte chiuse: ai tavoli nei ristoranti la sera si parla di guerra, economia e tensioni al vertice della Casa Reale. Su questo sfondo il voto alle donne sembra una piccola cosa: solo il tempo saprà dire se invece è un passo avanti importante per uno dei paesi chiave dello scacchiere internazionale.