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 2015  dicembre 10 Giovedì calendario

Prendersi a parolacce alla prima della Scala

Questi fantasmi! Il titolo della commedia di Eduardo è in favolosa sintonia con la moltitudine di spettri che si aggira nel mondo del melodramma, dove i retroscena dell’immane lavoro collettivo sono spesso enfatici, isterici, sboccati e appunto melodrammatici, come ci conferma la parola stessa. Se poi si parla della Scala, teatro dove i fantasmi coi quali ci si misura portano i nomi di Verdi, Toscanini e Callas, dunque nutrito da una storia angosciosamente esigente sul piano degli standard qualitativi, non è difficile che si scatenino passioni molto basse e tensioni troppo alte. È accaduto l’altra sera, il 7 dicembre, per la Giovanna d’Arco che celebrava il rito di Sant’Ambrogio, con l’apertura di stagione del teatro, nel clima sovreccitato degli applausi e della festa. Uno dei registi, Moshe Leiser, ha insultato nella diretta streaming il direttore Riccardo Chailly, e un maligno fuorionda lo ha beccato e registrato. Ma la voce che ci fossero bisticci e incomprensioni tra il maestro e la coppia di registi mobilitati per questa Giovanna verdiana circolava da un pezzo in teatro durante l’elettrico fervore delle prove.
Chailly è un grande e rigoroso signore della musica, uno dei pochi direttori d’orchestra inattaccabili a livello internazionale, e la sua difesa della partitura musicale da visioni registiche che considera invadenti o inopportune conta già un precedente alla Scala: per la seconda opera che dirigerà nel maggio prossimo a Milano, La Fanciulla del West di Puccini, ha rifiutato il famoso regista Graham Vick, che era annunciato nel programma già stampato, in base al progetto presentatogli dallo stesso Vick e decantato dal fiducioso sovrintendente Pereira come “un capolavoro”. Laconico il commento di Vick («non abbiamo trovato una visione comune»), mentre la Scala sistemava al suo posto Robert Carsen, anch’egli molto accreditato come regista di lirica. A sua volta Carsen meritò tremendi attacchi dal direttore Daniel Barenboim, musicista notoriamente molto caratteriale, in occasione del Don Giovanni che inaugurò la stagione della Scala nel 2011, tanto da scoppiare in lacrime durante uno screzio rimasto celebre in teatro. E furono ardenti le discussioni tra Daniele Gatti e il regista Dmitri Tcherniakov nel montaggio della Traviata di due anni fa, coi riflettori puntati su una Violetta “moderna“, dedita all’impasto della pizza in cucina e ad altre amenità domestiche.
D’altronde le cronache del melodramma – soprattutto nell’ultima fetta di Novecento con la forte ascesa del ruolo del regista – sono strapiene di lotte tra i responsabili della messinscena e i direttori d’orchestra. Gli uni vogliosi d’intervenire, rinnovare o modificare trame giudicate obsolete, retoriche o teatralmente deboli; gli altri infastiditi e offesi da intromissioni, sconvolgimenti ambientali, azioni o posizioni dei cantanti e del coro valutate come erronee o anti-musicali. Resta leggendaria la battaglia che contrappose Herbert von Karajan, genio d’indole algida e aggressiva, con trascorsi nazisti, e un divo della regia narciso e bizzoso come Strehler. Nel ’74 a Salisburgo litigarono violentemente per un Flauto Magico che il musicista intendeva “popolaresco” al massimo, mentre il regista lo sognava raffinato e sontuoso, e dunque, secondo Karajan, disgustosamente estetizzante. Due anni prima la testardaggine di Strehler, che non cedette alle critiche del mitico direttore d’orchestra Solti, portò alla cancellazione di un allestimento delle Nozze di Figaro a Versailles.
Sempre negli anni 70 Luca Ronconi, altra star del “teatro di regia”, si accapigliò a tal punto con il maestro tedesco Sawallisch alla Scala, per il ciclo del Ring wagneriano, da arrivare a non concludere il progetto, che infatti si fermò al Siegfried. E tanto focosamente Riccardo Muti se la prese con i coniugi Ursel e Karl Ernst Hermann a Salisburgo nel ’92, per una regia della Clemenza di Tito di Mozart verso cui il maestro espresse il suo «totale e irrimediabile disaccordo», da lasciare il festival qualche giorno prima del debutto. Infine fu sofferta la rottura fra il regista Peter Stein e Claudio Abbado, il cui rapporto, inizialmente radioso, uscì distrutto dalle loro acri divergenze sull’allestimento del Simon Boccanegra di Verdi portato a Firenze dopo il successo di Salisburgo (ma nella ripresa fiorentina accaddero disastri fra i due). «Mai più, purtroppo, ci saremmo riconciliati», sospirò Stein nel giorno della scomparsa del maestro.
Il dilemma è senza sbocco: se i teatri, sempre più in crisi, vogliono scandali e scalpore, dunque spettacoli feroci e “di tendenza”, capaci di magnetizzare i media, i campioni del podio, soprattutto quelli di antica e solida scuola, sentono come sacri e intoccabili la sostanza e l’intento musicale dell’opera. E c’è da aggiungere che in fondo è sempre un po’ uno smacco, per il regista, non essere il vero padrone della serata quando monta un’opera. Diceva Strehler: io sono come uno che insegna agli altri a far l’amore e poi, quando l’amore si fa per davvero, vengo costretto a dileguarmi e ad assistere senza partecipare; invece il direttore se ne sta lì, sulla vetta del podio, a tener le redini dell’amplesso.