La Stampa, 10 dicembre 2015
A New York, dove Donald Trump fa mettere il suo nome sui palazzi per far credere che siano suoi
Per capire perché Donald Trump sembra avere un terzo dei voti repubblicani alle primarie 2016, ieri ha occupato da solo tre editoriali del New York Times su quattro e in tv non si vede altro se non la sua zazzera arancione, dovete prendere la subway A e scendere a Columbus Circle. Non si tratta di una linea qualunque, Take the A train era il brano che apriva le serate del leggendario jazzista Duke Ellington, anche se Trump non insegue il voto afroamericano, punta sui bianchi depressi dalla crisi. Karl Rove, stratega di Bush figlio, ricorda che Mitt Romney ha perduto contro Obama nel 2012 con il 59% dei voti bianchi (al mitico Reagan solo 56%), l’America cambia e le minoranze sono maggioranza.
Nuova minoranza
La conferma nei volti di chi corre sulle scale della stazione di Columbus Circle, sotto la statua accigliata del povero Colombo che, se gli studenti dei campus avranno la meglio, sarà demolita per i reati di «stupro, schiavismo, colonialismo». Trump parla ai bianchi che si sentono nuova minoranza, arrabbiati per la caduta dei miti, Colombo imperialista, il presidente Wilson razzista, Washington e Jefferson padroni di schiavi. Il malumore della Folla Bianca può non bastare per la Casa Bianca ma fa di Trump un profeta: «Son pronto a correre da indipendente!», terrore repubblicano, delizia della Clinton per i voti rubati.
Al numero 1 di Central Park West trovate Trump International Hotel and Tower, l’ex grattacielo Gulf&Western, costruito così male che ai piani alti si soffriva di mal di mare per il vento, le finestre scoppiavano e presto tutti scapparono, lasciando i portici ai senzatetto. Trump chiede all’architetto Philip Johnson di colorare con vetri color bronzo le facciate, irrobustisce la struttura e va a far affari con i ricchi cinesi spaventati dal ritorno di Hong Kong alla Cina, in cerca di pied-à-terre a Manhattan. Il feng shui, la geomanzia cinese che assegna la fortuna agli edifici, però fa temere agli acquirenti il vorticoso girare delle auto lungo la rotonda di Columbus Circle «Accumula energia negativa». Trump convoca il grande maestro feng shui Tin Sun con la figlia Pun Yin. Parcella congrua e soluzione trovata, si costruisce un (orrido) mappamondo di metallo cromato che, sferico, «trasforma energia negativa in positiva».
«Feng shui? Non ci credo, ma vende case», bofonchia Trump: ecco la prima chiave della Trumpeide a spasso per New York. Gli intellettuali di destra, Boot, Kristol, Douthat, cercano ideologie in un uomo che non ne ha alcuna, se «serve» dice una cosa, se no un’altra. I giornalisti cercano di inchiodarlo al Vero-Falso di una risposta, per Trump, discepolo del filosofo Derrida che non ha mai letto, Vero-Falso sono narrative da scambiare a piacere.
Il nome per pubblicità
Alzate ancora il naso in su, oltre il ristorante Jean-Georges dove il cibo postmoderno è lessato stile ospedale ma il conto vi fa ammalare: la scritta recita Trump International Hotel and Tower, i passanti son certi che il padrone sia lui, «The Donald». Surprise! La torre magnifica è di proprietà del fondo pensioni General Electric, Trump paga solo per il diritto di chiamare l’edificio col suo nome. In città pochissimi conoscono il segreto e se, con pazienza, all’Hpd, il catasto locale, spulciate l’impero Trump scoprite che la sigla Trump brilla su 12 grattacieli (e 5 minori edifici) di Manhattan, ma «The Donald» ne possiede appena due, il Trump Building, 40 Wall Street, e la Trump Tower, 725 Quinta Avenue. Sugli altri lascia il nome per pubblicità.
Trump, come il Principe di Machiavelli sa che Apparire conta più di Essere. Come il vecchio filosofo Sini che considera Realtà e Verità «Signore invecchiate», lui preferisce Finzioni e Falsità oltre a bionde 90-60-90 per nulla invecchiate. Girate ora lungo il Central Park South, oltre il laghetto dove si nascondono d’inverno le anatre che invano cerca il Giovane Holden di Salinger (detestabile omofobo viziato, a giudicarlo come i ragazzi dei campus giudicano Colombo) e fermatevi alla vetrina del Trump Parc e Trump Parc East, civico 100 e 108 (Trump non possiede nessuno dei due edifici…). Un video mostra le «proprietà di lusso» del magnate, manifesto opulento dell’«America Grande». Qui Trump appare come il miliardario che tanti vorrebbero essere, studiando i suoi bilanci reali si sgonfia. Passate sulla V Avenue, senza fermarvi a far colazione da Tiffany o, come nel Grande Gatsby, al Plaza per un tè (Trump ha posseduto per un po’ l’hotel storico, «ho pagato troppo “’sto mito"», dandolo in gestione all’ex moglie Ivana) e arrivate al 725, Trump Tower che, per una volta, appartiene davvero al pittoresco candidato. Sulla destra, nell’atrio di marmo rosso, tra cascate d’acqua lungo le pareti e passamano d’ottone, incombe la catasta di libri di Trump Crippled America, America Invalida. Un’elegante commessa afroamericana offre il volume con il proclama «Sono simbolo del successo americano… businessman senza rivali» ed è inutile chiederle di vendervi anche Never enough biografia che Thomas Dunne ha dedicato a The Donald: non ce l’hanno. Dopo dieci ore di interviste, Trump nega infatti udienza a Dunne, colpevole di ridimensionare la favolosa ricchezza.
«Un milione per partire»
Secondo il saggista Timothy O’Brien Trump possiede tra 150 e 250 milioni di dollari, molto meno di quanto dichiara. «Ho avuto da mio padre solo un milione per cominciare», dice ai comizi Trump ricordando il papà Fred, palazzinaro di origine scozzese, ma invece ha ereditato nel 1974 almeno 200 milioni che, secondo il Financial Times, in Borsa frutterebbero oggi tre miliardi. L’opulenza di Trump è come il suo nome sui grattacieli, un miraggio.
Trump vende al 725 di Fifth Avenue anche camicie con il suo nome, ma non sono nere, malgrado così credano i guru repubblicani come Max Boot, persuasi che Trump sia «fascista». No, il Duce non c’entra, queste camicie non sono fatte «per combattere o morir», sono «tacky», appariscenti, gli snob le disprezzano, chi sfanga la vita con 10 dollari l’ora le ammira. Da una generazione, piccolo borghesi e operai bianchi, salari reali fermi al 1992, votano repubblicano, ma il partito pensa solo a Wall Street, alle guerre, all’aborto e non fa nulla per loro. A questa folla di arrabbiati, che come Clint Eastwood in Gran Torino ride con barzellette su neri, asiatici, italiani e polacchi, Donald Trump offre il ringhioso sogno, «torniamo ai bei tempi».
Le sue offese ai musulmani sono deprecate nei party delle Nazioni Unite e ieri Tom Friedman, sul New York Times, scriveva affranto che in Kuwait gli han chiesto se davvero «Trump vieterà le moschee?». I suoi fan ribattono con una logica ruvida: perché l’America permette ai Paesi del Golfo di finanziare moschee fondamentaliste se loro non permettono di costruire chiese? Trump è vicino di casa della cattedrale cattolica di St. Patrick, ma papà Fred era presbiteriano e lo portava da bambino alla Marble Collegiate Church sulla 29th Street, meta finale del nostro pellegrinaggio. Sotto quella guglia, faux gotico-romanica, il bambino Donald ascoltava i sermoni ottimisti del reverendo Norman Vincent Peale: «Pregando chiedete a Dio molto, perché Dio vi giudica dalla vostra ambizione», più si chiede più si ottiene. Donald Trump non arriverà, assicurano i sondaggi, alla Casa Bianca, ma la sua «preghiera ambiziosa» piace già un sacco ai bianchi senza sogni della nuova economia e sposta a destra il partito che fu dell’establishment moderato.