la Repubblica, 10 dicembre 2015
«Sì, noi direttori di banca raccomandavamo quei bond, ma non erano rischiosi». Parla il direttore di una filiale di Banca Etruria
«Lavoro da 15 anni in Banca Etruria e questo è il mio momento più buio. Non sai più a chi credere, non sei più credibile. Come vai domani a proporre altri prodotti finanziari? Come sostieni lo sguardo accusatore di clienti che conosci da una vita e che ora ti additano come uno che fa macelleria sociale?». M.S. è il direttore di una filiale toscana di Banca Etruria, uno dei quattro istituti di credito salvati dal governo, anche grazie all’azzeramento dei titoli in mano a 115.500 tra azionisti e obbligazionisti subordinati. «Non siamo carnefici, questo no», racconta il direttore. «Sì forse in qualche caso, specie in provincia, c’abbiamo messo del nostro, raccomandando obbligazioni che però fino a qualche mese fa erano assolutamente non rischiose, addirittura identificate come Up, a differenza delle Down. Ma non l’abbiamo fatto perché eravamo spinti a farlo. Sono quattro anni che non riceviamo premi di produzione, né c’erano stati promessi scatti di carriera o promozioni. Assolutamente no».
Ma allora cos’è successo? Come mai queste obbligazioni subordinate hanno inondato il portafoglio degli italiani?
«Dal 2013 le emissioni si sono impennate e la priorità era piazzarle per salvare la banca, questo lo capisco solo ora. Anziché fare dieci posizioni da 10 mila euro, ne facevano tre da trentamila e consigliavano ai clienti di sottoscrivere tutti i risparmi che avevano. Un errore, ma in buona fede. Nessuno ha avuto la percezione dell’azzeramento dei bond. Non è successo neanche con Parlamat, Alitalia, Cirio, Argentina. La domenica del decreto, 22 novembre, era in casa con la famiglia. Ho sentito in tv del decreto e ho pensato: bene, ci hanno salvato. Il lunedì ha scoperto che azioni e obbligazioni subordinate valevano zero. Uno choc. Ho perso soldi anch’io».
Possibile che non si fosse accorto di nulla? Nessuno scricchiolio?
«Le perdite c’erano, certo. E poi si diceva e si scriveva sulla stampa di operazioni dissennate, prestiti agli amici degli amici. Poi però è arrivato il commissariamento di Bankitalia, troppo tardi. Tutti abbiamo pensato che era fatta, si usciva dal guado. Poi il decreto, la doccia fredda. E la presa di coscienza lenta di ciò che era successo da parte dei clienti. Che hanno capito solo domenica scorsa cos’era capitato ai loro risparmi, quando hanno visto in tv le immagini della manifestazione davanti a Montecitorio e gli articoli che uscivano sui giornali. Il giorno dopo li avevo tutti da me, in filiale. Anche quelli non a rischio, ma che minacciavano comunque di ritirare tutto, cancellare il conto, andare via. Il panico».
I tassi però erano alti. Perché non avete spiegato che era una compensazione del maggior rischio?
«Il tasso oscillava tra 3,5 e il 5 lordo, quando però il mercato dava solo un punto o un punto e mezzo in meno. I titoli non erano rischiosi, non avevamo motivo di allarmare. Il prospetto e la Mifid? Ma si figuri se la gente si mette a leggere questi documenti. Il punto è un altro. Le persone si fidavano di noi perché eravamo una banca semplice, radicata sul territorio, per clienti semplici. Una banca dove tutti si fidano».
Le cose sono andate un po’ diversamente, però. E i profili di rischio sono cambiati all’improvviso, negli ultimi mesi. Bastava la letterina?
«Per la legge sì, vale il silenzio- assenso. Se entro 60 giorni non ritiri il capitale, vuol dire che accetti un maggior fattore di rischio. Ma quella lettera l’ha mandata la direzione centrale, non la filiale. Neanche noi ci abbiamo fatto caso».
I risparmiatori sì. Troppo tardi, però.