la Repubblica, 10 dicembre 2015
Intervista al ministro degli Esteri russo Lavrov che avverte l’Italia: «Il Califfato vuole la Libia. Per voi è un bel problema»
Non c’è l’aquila imperiale e nemmeno un solo tricolore russo. Sergej Lavrov, per il suo incontro con i giornalisti italiani, sceglie una saletta defilata nella dépendance del maestoso palazzo voluto da Stalin sull’Anello dei Giardini, per la sede del Ministero degli Esteri. Oltrepassati controlli, fregi e soffitti a volta, si entra subito nella dimensione operativa che tanto predilige: stretta di mano, un bicchiere d’acqua minerale, e via.
Si comincia dalla Libia: «Il Califfato vuole fare di Sirte una filiale di Raqqa. Per l’Italia è un problema serio. Noi siamo pronti ad aiutarvi». Poi tocca alle sanzioni economiche: «Sono gli Usa che le impongono alla Ue. Ma, se la questione ucraina non si è ancora sbloccata, è colpa del governo di Kiev». E, naturalmente, la guerra di Siria: «Solo una coalizione compatta potrà sconfiggere i terroristi. Chi usa come ostacolo le sue antipatie personali nei riguardi di Assad, dovrebbe cominciare a metterle da parte». E infine una chiusa sulla inquietante battuta di Putin a proposito di armi nucleari: «Il Presidente conferma la nostra dottrina militare. Non le useremo, non ce n’é bisogno».
Abito italiano, cravatta scura in tinta, scarpe inglesi, Lavrov sfoggia tutto il suo gusto nel vestire cui gli altri politici russi si stanno faticosamente adeguando. L’aria è seria, pochi sorrisi, pochi concessioni all’umorismo: è il ministro di un Paese in guerra e ne è consapevole. Sta per partire per Roma dove oggi, alla conferenza sul Mediterraneo, sarà l’ospite chiave. Perché non è solo il capo della diplomazia di Mosca ma molto di più. A 65 anni ha ormai acquisito un ruolo chiave non solo in politica estera. Per i colleghi, e per la gente di queste parti, lui, e il ministro della Difesa Sergej Shojgu, sono i due “cavalli di razza” che trainano la troika guidata da Vladimir Putin con vaghe possibilità di successione futura.
Secondo fonti iraniane non smentite il leader del Califfato Al Baghdadi sarebbe già in Libia. Dobbiamo aspettarci pericoli concreti nel Mediterraneo?
«Non so dove sia Al Baghdadi. Ma abbiamo informazioni su cellule dell’Is insinuate nelle milizie libiche. Il Califfato vuole dimostrare di essere un prodotto di successo e mira a espandersi ancora. Per l’Italia è una forte preoccupazione per motivi geografici e storici. Putin e Renzi ne parlano da più di un anno in tutti i loro incontri. Faremo del nostro meglio per aiutarvi. E speriamo che tutti si rendano conto del grave errore commesso in Libia quando si pensò che la fine di un regime fosse la panacea di tutti i mali. Bombardare Gheddafi, destituirlo, giustiziarlo in diretta tv, ma senza un progetto alternativo, fu una grave dimostrazione di irresponsabilità. Noi diciamo: non scavare una buca per gli altri perché poi ci cadi anche tu».
Il 13 dicembre, sempre a Roma, parteciperete con un vostro viceministro alla conferenza sulla Libia. Che posizione assumerete?
«Il piano Onu prevede di scavalcare gli speaker dei parlamenti di Tobruk e Tripoli che si trovano su posizioni opposte. Noi appoggiamo questa soluzione, anche se rischiosa, ma bisognerà aumentare gli sforzi per per l’unità di quel Paese. E bisogna farlo coerentemente e minuziosamente. La conferenza è molto importante ma non ci aspettiamo che risolva tutti i problemi».
Intanto, in Siria, gli sforzi per formare una coalizione continuano a non produrre risultati. Che sviluppi prevede?
«In Siria, tra forze russe, americane e di alcuni paesi arabi moderati, c’è quanto basta per sconfiggere l’Is. Dovremmo fare come nella Seconda guerra mondiale quando, davanti al pericolo nazista, si superarono tutte le barriere. Noi russi siamo i soli ad agire in Siria in perfetta legalità su richiesta del Presidente siriano Assad che, tra l’altro, guida le sue forze di terra contro l’Is. Se i partner della possibile coalizione continuano a richiedere una data certa per l’uscita di scena di Assad, noi rispondiamo che tutto ciò è contrario al diritto e alla democrazia. Abbiamo realizzato strutture di informazione a Bag- dad e anche ad Amman, che sarebbero strumenti fondamentali per coordinare le operazioni militari. Ma finché prevarranno solo le richieste di mandar via Assad non si troverà un accordo. Le coalizioni diventano possibili solo quando si rinuncia a cercare vantaggi geopolitici unilaterali».
A peggiorare le cose ci si è messo l’incidente con la Turchia. L’abbattimento del vostro cacciabombardiere sul confine avrà ulteriori conseguenze?
«Quella è una trappola nella quale non siamo caduti. È molto strano che Ankara non sapesse che l’aereo fosse nostro. Come è strano che ci fossero già piazzati operatori televisivi nei punti strategici per riprendere l’avvenimento. Sì, come ha detto Putin, è stata una pugnalata alla schiena. Noi consideravamo la Turchia un partner nella lotta al terrorismo».
Però qualche dubbio dovevate già averlo. Visto che indagavate sui traffici illeciti di petrolio con l’Is.
«Sapevamo da tempo come i terroristi usino il territorio turco per i loro traffici ma non potevamo credere che vi fossero coinvolte tutte le autorità di Ankara. Sapevamo delle forniture di armi, dell’assistenza medica ai jihadisti in Siria ma anche nel nostro Caucaso. Lo dicevamo ai colleghi turchi perchè prendessero provvedimenti. Invece hanno sparato al nostro aereo, svelando il loro sostegno ai terroristi. Non so per quali motivi».
Pensa che la campagna elettorale americana possa cambiare l’atteggiamento di Washington e, di conseguenza dell’Occidente, nei confronti della Russia?
«Capisco che ogni presidente voglia lasciare un buon ricordo. Obama aveva promesso di lasciare l’Iraq, di chiudere Guantanamo, e tante altre cose che non è riuscito a mantenere. Noi vorremmo andare d’accordo con gli Usa ma possiamo accettare solo un rapporto paritario. Finché il vice di Obama Joe Biden va in giro per l’Europa a raccomandarsi di mantenere le sanzioni contro di noi senza prendere in considerazione gli atteggiamenti del governo di Kiev nato su pressioni occidentali, non potremo trovare punti di intesa. In tante altre occasioni siamo stati accusati di tutti i mali del mondo e messi sempre davanti a scelte del tipo prendere o lasciare. Non è su queste basi che si può costruire un buon rapporto».