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 2015  dicembre 10 Giovedì calendario

Le mille moschee invisibili in Italia

La «moschea» è un tendone bianco con le luci al neon e una lunga appendice di tappetti di gomma verdina srotolati in cortile. Al richiamo dell’altoparlante, gli uomini arrivano a centinaia. Le donne sono sette, poi dieci, al momento di massimo affollamento quindici, con tre bambini, malamente separate dal resto dei fedeli da un telo nero sbilenco. L’imam predica oltre il divisorio, da un pulpito sistemato nell’angolo. Alle spalle, l’immagine della Cupola della Roccia a Gerusalemme.
Che picchi il sole o che l’area del vecchio Palasharp sia avvolta dalla nebbia, come in questi giorni, l’Istituto culturale di viale Jenner organizza qui, ogni venerdì, la preghiera islamica che resta una delle più seguite di Milano. Nel bene e (in passato) nel male, l’Istituto ha una lunga storia in città: al centro delle maggiori inchieste anti-terrorismo tra gli anni Novanta e gli inizi del Duemila, poi l’allontanamento dagli estremisti e il dialogo. Le condizioni della preghiera, però, sono migliorate di poco: dai marciapiedi di viale Jenner a questo luogo provvisorio che Italo Rota individua come «terzo paesaggio», a metà tra la dismissione e l’abbandono.
Tra progetto e realtà
L’archistar è stato in missione nella tensostruttura morente per disegnare la nuova moschea: un edificio di trasparenze e rifrazioni che ha vinto il bando per i luoghi di culto indetto dal Comune di Milano su quest’area. Ma non è ancora chiaro se e quando l’idea di Rota vedrà la luce. È stato uno dei punti nel programma elettorale del sindaco di centrosinistra, Giuliano Pisapia, oltre quattro anni fa: almeno una moschea regolare per gli oltre centomila musulmani in città. Ma s’è rivelato molto più complicato del previsto. Un Albo delle Religioni, prima, un’aggiunta all’Albo, poi la scelta di tre aree e di una gara aperta a tutte le religioni. La chiusura del bando, con due lotti su tre destinati agli islamici. Quindi i ricorsi al Tar. E nel mentre una modifica alla legge regionale pensata per bloccare la costruzione di ogni moschea in Lombardia. Impugnata dal governo davanti alla Corte Costituzionale e difesa, ancora qualche giorno fa, dal governatore leghista Roberto Maroni: «Il problema della sicurezza si risolve anche così». In sintesi, oggi a Milano è possibile aprire un’enorme «Chiesa di Scientology» (che non è un culto riconosciuto, quindi è soggetto a minori restrizioni) ma è ancora difficile immaginare una moschea «normale», capiente e dignitosa.
Senza intesa né leader
Non è una storia solo milanese. La via maestra per edificare un luogo di culto (qualsiasi culto) è ancora legata a vecchie norme, di un’Italia del secolo scorso, e passa da un’intesa con lo Stato che l’Islam non ha. Perché non esiste un solo Islam, non c’è un’unica associazione di riferimento, si sono formati coordinamenti locali e parziali, ma per la struttura stessa della confessione è impensabile un interlocutore unico. Questo rende tutto più complicato, e lascia i fedeli in balia degli amministratori, della paura di perdere consensi, del caso.
Alla fine, i minareti si contano sulla punta delle dita. La moschea più vicina a Milano è a Segrate, ma nasce come cappella attigua al cimitero musulmano. La Grande Moschea di Roma sorge negli anni Ottanta su iniziativa (e fondi) di Paesi arabi sul modello di Parigi. A Catania il primo luogo di culto islamico è di trent’anni fa. Poi chiude, e una vera moschea risorge solo nel 2012: la più grande del Mezzogiorno, rivendica l’imam Kheit Abdel Hafid. «Prima pregavamo in un sotterraneo – racconta —: non era dignitoso, anche dal punto di vista sanitario. Non c’erano le uscite di sicurezza, non c’erano finestre. Ringraziamo Dio che siamo usciti alla luce del sole. Ora siamo un punto di riferimento per tutto il quartiere».
Islam nascosto
Di scantinati, però, il Paese intero resta disseminato. Il Viminale contava pochi anni fa oltre 700 centri culturali adibiti a moschea o a sala di preghiera. Oggi la stima è tra 800 e 1.000 luoghi di culto, qualcuno più strutturato, la maggior parte nascosta in capannoni, cantine, garage, magazzini. Il fotografo trentino Nicolò Degiorgis ha attraversato a lungo il Triveneto per mappare le moschee in ombra. Il lavoro finale, «Hidden Islam», ha vinto premi e scatenato un dibattito sul Guardian. «Il titolo è volutamente ambivalente – spiega Degiorgis —: sono costretti a nascondersi o è la società che li nasconde?». Situazioni molto diverse da Marghera a Villorba, ma con una costante: «Il disagio per chi prega e anche per il vicinato».
In condizioni come queste, gli spazi per le donne sono spesso sacrificati. E i giovani non hanno un luogo attraente da frequentare al di là dei sermoni.«Abbiamo bisogno di moschee regolari per svolgere un ruolo di educatori – è la linea di Davide Piccardo, portavoce delle associazioni islamiche milanesi (Caim) —. La violenza nasce dal vuoto».