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 2015  dicembre 05 Sabato calendario

Slow Journalism, ovvero la rivoluzione di una rivista inglese

Slow Food: ormai sanno tutti cos’è e quasi tutti lo apprezzano, almeno occasionalmente. Slow Travel: l’equivalente di un cibo genuino e fatto in casa; molti lo sognano come antidoto al turismo di massa, stile “via dalla pazza folla”; chi lo pratica generalmente poi non torna più ai pacchetti vacanze delle agenzie di viaggi o agli itinerari suggeriti da Trip Advisor. Slow Life: è la scelta dei pochi fortunati in grado di scendere dalla rat race, la corsa dei topi per avere tutto ma spesso non conquistare niente tranne lo stress. Una filosofia di vita differente, dove fai quello che vuoi, quando vuoi, con chi vuoi.
E allora anche Slow Journalism? No grazie, verrebbe da rispondere automaticamente al lettore dell’anno 2015. Perché la rivoluzione digitale ha dato al giornalismo tutto quello che avrebbe sempre voluto e non si era mai permesso di immaginare: notizie in tempo reale, notizie 24 ore su 24, notizie arricchite da immagini, film, grafici, link che le ingigantiscono e le mettono in una prospettiva infinita, notizie nello spazio di un secondo, anzi di un clic del mouse, o meglio ancora di una strisciata di polpastrello sullo schermo dello smartphone. Notizie prodotte da giornalisti dilettanti, da giornalisti di passaggio, da giornalisti per caso che spesso offrono più scoop di quelli del giornalista di professione, in un mondo nuovo dell’informazione in cui siamo tutti reporter, grazie a blog, tweets, instagram, insta-tutto e insta-sempre. Le news del XXI secolo corrono alla velocità della luce, in uno scambio continuo fra chi le produce e chi ne fruisce, con una ricchezza smisurata di fonti, mezzi, opinioni, per cui chi mai potrebbe rimpiangere il buon tempo antico in cui le notizie viaggiavano lente, talvolta letteralmente a dorso di cammello, per poi spiccare il balzo verso le redazioni e i lettori grazie a un telex o a uno sperduto telefono, magari giorni o settimane dopo l’avvenimento descritto?
Invece no. Qualcuno fa l’elogio della lentezza anche per il giornalismo e a quanto pare guadagna lettori, estimatori, soldi (i quali, ricordiamocelo, restano l’anima di ogni “food”, “travel”, “life” che si rispetti, lento o veloce che sia).
Cinque giornalisti inglesi fondano una casa editrice chiamata per l’appunto così, Slow Journalism (simbolo appropriato: una macchina da scrivere, se non sapete cos’è chiedete ai genitori o ai nonni) e pubblicano un trimestrale la cui testata ha un sapore vagamente psicoanalitico o forse perfino sensuale, erotico: Delayed Gratification. Piacere a scoppio ritardato. Che cosa vuol dire? «Vuol dire», spiega il direttore Marcus Webb, «rivisitare i fatti dei tre mesi precedenti, dopo che sono usciti dalle prime pagine dei quotidiani e dalle aperture dei telegiornali, per capire cosa c’era dietro, per scoprire cosa è successo dopo, per analizzarli in una prospettiva più ampia, insomma per ricavarne una comprensione più sostanziale e soddisfacente».
Il piacere o per l’appunto la gratificazione di un diverso modo di fare e ricevere giornalismo. «Con una cornice piacevole anche al tatto, come è una rivista patinata, con bella carta, belle immagini, un’infografica accattivante e stimolante», gli fa eco il co-direttore Rob Orchard. In più, l’ambizione di vedere le notiziole minime che sfuggono al fiume in piena del Fast Journalism, del giornalismo rapido: le curiosità che magari nascondono una grande storia, i dettagli che illuminano, il dietro le quinte che fa spettacolo.
La redazione di Delayed Gratification è in un luogo appropriato: i sotterranei di Somerset House, piccolo splendido museo londinese, affacciato sul Tamigi e a una piazza dove ogni anno nel periodo natalizio vengono montati un grande abete con i festoni colorati e una pista di pattinaggio sul ghiaccio. Solo ad avvicinarsi sembra di entrare in un’altra epoca, nella Londra di ieri. Per coincidenza, a poca distanza da qui, sorge Fleet Street, la leggendaria “via dell’inchiostro”, com’era ribattezzata un tempo la strada in cui è nato il giornalismo moderno, dove si trovavano tutte le redazioni dei quotidiani britannici e gli uffici di agenzie e corrispondenti esteri.
È un ritorno al passato, dunque, quello proposto da Webb (ex-direttore di Time Out, il settimanale bibbia dell’intrattenimento delle grandi metropoli) e Orchard (un veterano della Bbc)? Si e no, rispondono insieme. Sì, perché nella migliore tradizione del giornalismo ci sono elementi da salvare, conservare, riprendere. No, perché la loro non è un’ostinata battaglia contro il progresso: carta e digitale, news 24/7 (come si dice in gergo, ovvero 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana) e trimestrali sono facce della stessa medaglia, possono convivere, anzi hanno bisogno l’una dell’altra, tanto è vero che il neonato gruppo Slow Journalism ha anche un sito internet, account su Facebook e Twitter, una newsletter settimanale online a cui ci si può abbonare se non vi basta una “dose” di gratificazione ritardata ogni tre mesi. «I blog in diretta e i network televisivi di sole news hanno il loro fascino», riconosce Webb, ma cinguettii sui social network e app su telefonino non possono sostituire il piacere creato da inchiostro e carta e da un contenuto che a fine giornata non va buttato via ma trattenuto, messo da parte, archiviato».
Quando prendi in mano Delayed Gratifìcation, il piacere è innegabile già al tatto: come un corpo da carezzare. Quando lo sfogli, l’eleganza della grafica e la fantasia dell’impaginazione attirano irresistibilmente l’occhio del lettore. E la lettura è senza dubbio interessante: un articolo rivisita l’epidemia dell’Ebola in Africa indagando cosa l’ha fatta esplodere; un’inchiesta cerca di fare luce sulla tragica scomparsa di 43 giovani in Messico, uno dei crimini più efferati dei narcotrafficanti; un’intervista tenta di andare a fondo del fenomeno Ukip, il partito populista xenofobo il cui unico obiettivo è portare la Gran Bretagna fuori dall’Unione Europea. Ma la rivista tratta creativamente anche temi apparentemente meno seri, con un’analisi statistica di quanto sesso ci sia dentro ogni volume della trilogia Cinquanta sfumature di grigio (per la cronaca: sempre di meno come quantità, di volume in volume, ma sempre più kinky, perverso, man mano che si avanza da un tomo all’altro). Un’idea che ha procurato al trimestrale i complimenti di un settimanale autorevole e prestigioso come l’Economist.
Un rapporto della società di analisi Deloitte afferma che iniziative di questo genere non sono un’eccezione. Periodici di “nicchia” possono esistere e prosperare accanto allo tsunami dell’informazione digitale. Una rivista patinata può rafforzare l’immagine di un brand anche senza portare profitti: è il caso di Vice Magazine per l’impero televisivo e digitale dallo stesso nome, o di Moshi Magazine per l’omonimo produttore di videogames. E se il 35 per cento dei britannici hanno ancora un abbonamento a un giornale o a un periodico significa che la morte del giornalismo cartaceo è stata annunciata prematuramente. Oltretutto Delayed Gratifìcation non ha inventato niente di nuovo. Il giornalismo “lento” continua a esistere anche nell’era del web. La New York Review of Books ha 150mila abbonati ansiosi di leggere ogni quindici giorni non solo recensioni di libri, ma pure reportage che sono il frutto di mesi di lavoro. David Remnick, direttore premio Pulitzer del settimanale New Yorker, assegna incarichi altrettanto lunghi ai suoi migliori redattori, i cui articoli sono spesso così lunghi che in seguito diventano capitoli di libri. Il New York Timese alcuni dei migliori quotidiani del mondo si prendono talvolta il lusso di togliere a un inviato la responsabilità della cronaca giorno per giorno per fargli seguire una notizia per settimane prima di scrivere una sola riga. Per produrre uno Slow Journalism di qualità, in effetti, occorrono gli stessi requisiti necessari a uno Slow Food di qualità, visto che la rivoluzione della lentezza è nata dal cibo (e dal suo sacerdote Carlo Petrini): ottimi ingredienti, un cuoco sapiente e tempo in abbondanza. La lentezza, da sola, non basta.
Proprio questo può essere il lato debole del trimestrale pubblicato a Londra: avere grandi giornalisti su una grande storia per tutto il tempo necessario a esplorarla richiede mezzi che una piccola rivista indipendente non sempre può permettersi. Il rischio, quando arrivi dopo il diluvio di notizie, interviste, commenti, reportage, inchieste pubblicato da stampa, televisioni e siti, è di spacciare un taglio stravagante per una importante rivelazione.
La verità è che la gratificazione a scoppio ritardato esiste già anche in altre forme di giornalismo: qualsiasi buon quotidiano offre oggi inserti illustrati, pagine domenicali, appuntamenti regolari per approfondire ed espandere quel che racconta ogni mattina in prima pagina. L’utilità dello slogan Slow Journalism coniato a Londra è avere messo comunque il dito sulla piaga: il giornalismo è un mestiere fatto necessariamente di fretta, ma ogni tanto deve saper premere il freno, fermarsi, guardarsi intorno, riflettere, dilungarsi. Le news non possono essere soltanto morsi e bocconi, tweet e app. Neppure nel secolo digitale.