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 2015  dicembre 08 Martedì calendario

Il calcio come fatica. Confessioni di Javier Mascherano

El Jefecito è diventato Jefe ormai. Alla sesta stagione al Barcellona, ne è diventato uno dei capitani, oltre che Capo. «Ma sono gli altri che fanno di te un leader», ci dice. Lo chiamavano El Jefecito, perché al River a 19 anni aveva preso il posto del Jefe, Leo Astrada, e per la personalità. Già, il River, ora rischia di ritrovarselo in finale al Mondiale per club il 20 dicembre. «Lì sono stato felice, ma non del tutto. Mi è mancata qualche sfumatura. Mi piacerebbe tornare, chiudere dove tutto ha avuto inizio, ma non a ogni costo. Se non sarò in grado di portare al River ciò che ho dato agli altri club non tornerò. Devo star bene e il club deve aver bisogno di me». Ma lì la vogliono anche come futuro allenatore. «No, io voglio ancora giocare e allungare la carriera. Ci sarà tempo per prepararsi a fare il tecnico. Poi una cosa è provarci, altra riuscirci». Più difficile guadagnarsi il rispetto dei giocatori o impiantare un’idea di gioco? «La maggior complessità è gestire un gruppo di 25-30 persone, alcuni più determinanti di altri, alcuni che giocano di più… Da tecnico puoi portare nuove idee ma alla fine sono i giocatori che decidono in campo. Ora mi piace provare a mettermi nella testa del tecnico quando prende delle decisioni, cercare di capirle». Ecco, come accolse l’idea di Guardiola di spostarla a difensore centrale? «Un tecnico ti può convincere con la complicità e l’affetto. O con la conoscenza. A Guardiola piace parlare di futbol per ore e anche a me. Con lui ho imparato nuovi concetti. All’inizio è stato difficile ma ero cosciente che mi serviva imparare». Ormai si ritirerà da difensore? «No, ho la speranza un giorno di tornare a giocare da centrocampista. Quel che non so è se lo farò al Barça, anche se non credo. Anche se mi trovo bene nel ruolo difensivo ma penso sempre di essere un centrocampista difensivo». Se fosse rimasto centrocampista che carriera avrebbe avuto a Barcellona? «Penso che non starei qui ora e non avrei vinto tutto quel che ho vinto col Barça. Ne sono cosciente». È cambiato come giocatore? «Logico, in un club così non giochi se non ti evolvi. Non basta il talento, ho pulito alcuni aspetti e gioco in altro modo». Non è possibile vederla in coppia con Busquets? «I tifosi blaugrana sono così abituati a veder giocare il Barça in un certo modo, il doble pivote per loro è sinonimo di difensivismo. E forse il gioco ne risente di fluidità e abbiamo meno uomini in attacco. Ciò non toglie che altre fra le migliori squadre al mondo giochino con 2 centrocampisti centrali, lo facevamo al Liverpool. Qui è 4-3-3 e se gioco con Busi lui è l’interno di centrocampo». Se gioca al posto di Sergio sente più pressione? «No, al contrario. Sono più libero e soffro di meno. Sì, io soffro il calcio, non mi diverto in partita. Per 90’ devo stare concentrato, non voglio fare sbagli. Mi diverto solo in allenamento. E da difensore non sono come Piqué che entra in campo rilassato. Ma pure difendere è un’arte». Lei mostra più cicatrici che tatuaggi. «Sì, vero, non ho neanche un tatuaggio. Non ho mai seguito le mode, sono atipico. Del calcio mi piace solo il gioco, l’allenamento, il tentare di migliorarsi, non la fama e gli altri effetti collaterali. Non mi piace essere famoso, non poter andare in giro e dover restare in casa». L’anno scorso avete conquistato il 2° Triplete. «E non è stato facile. In Europa abbiamo eliminato 4 campioni nazionali (City, Psg, Bayern e Juve, ndr ) e li abbiamo battuti sempre tranne i tedeschi a Monaco. Una delle Champions più toste degli ultimi anni». Però spesso passa l’idea che tutto sia dovuto solo ai tre davanti… «Bisogna esser realisti: puoi difendere bene quanto vuoi ma se in attacco non hai questa quantità di talento è difficile vincere così tanto. Poi alla fine brilla chi è decisivo. Ma è vero anche che siamo stati la difesa meno battuta nell’ultima Liga, cosa che non vuol dire che il merito sia solo di noi difensori». La vostra difesa inizia in attacco. «Esatto. Difendiamo a blocchi e facciamo un pressing molto alto. Quanti giocatori difensivi abbiamo? Di solito 3, il pivote (Busquets) e due difensori centrali. Neanche i laterali sono difensori, li usiamo per attaccare». Al West Ham, prima esperienza in Europa nel ’06, gioca poco. Ela vuole Benitez al Liverpool nel ’07. «E dopo 4 mesi sono in finale di Champions! Lui mi voleva già a Valencia quando io giocavo nel River. Io dopo Londra pensavo alla Serie A e alla Liga. Mi ero incontrato con dei dirigenti della Juve, che era in B quell’anno. E a Rafa dissi: “Ma come faccio a giocare se hai già Xabi Alonso, Momo Sissoko e Gerrard? E lui: “Nessuno dei tre ha le tue qualità”».Ma al West Ham di Pardew giocò pochissimo. «È frustrante arrivare dopo un Mondiale e il tuo tecnico ti chiede “tu che in ruolo giochi?”. Ma per 6 mesi mi sono allenato e ho insistito. Per questo con Benitez fui subito pronto a giocare». Nell’estate 2014 Rafa la voleva al Napoli. «Sì, è vero, ne parlammo. Ora, lo sento meno da tecnico del Real! Ma lo ringrazio di avermi tirato fuori da un pozzo nero profondo 20 metri. Grande uomo, tecnico studioso, ottimo maestro». In quasi 670 partite lei ha segnato solo 10 gol e col Barça in 250 match 0 reti. Le sue figlie hanno rinunciato ormai a una dedica? «Guardi, ho la fortuna che in casa né le mie due bambine né mia moglie amano il calcio. È dura poter vedere futbol in tv in casa, però mi aiuta moltissimo a staccare».