Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  dicembre 08 Martedì calendario

Filippo Facci stronca la prima della Scala

Sommario. I due registi francesi della Giovanna d’Arco scaligera sono stati così paraculi che per scongiurare l’imprescindibile parallelo Giovanna d’Arco-Marine Le Pen (parallelo temporale e fattuale, essendo Giovanna d’Arco il simbolo del Front National) si sono inventati che non era la storia di Giovanna d’Arco, quella, era la storia di una ragazza che sognava la storia di Giovanna d’Arco: in pratica una schizofrenica con delirio narcisistico della personalità.
Poi. Le parole «trionfo» e «applausi» non stiamo neanche a scriverle: è come associare «caldo» a «Sahara», automatismi che non sono la misura di niente. Ma di questo accenniamo dopo a proposito dell’opera più brutta in assoluto di Giuseppe Verdi (e si sapeva) che naturalmente è stata applaudita anche volgarmente, a scena aperta, per cose da niente.
Poi. Sicurezza: altro che le uova di Capanna, altro che le minacce dei No-Expo, stavolta per rispettare le aspettative dei peggioristi doveva al minimo attaccare l’Isis o scoppiare una bomba nel foyer: non è successo niente del genere e ha trionfato un meneghino e occidentalissimo ordine pubblico, anzi, tutto sommato l’atmosfera era più tranquilla che per il concerto dell’Expo.
Poi. La Scala è spietata, bastava guardare l’agitazione mediatica di quando è arrivato Renzi (con 32 minuti di anticipo) e di converso bastava guardare come nessuno si è filato colui che sino a tre anni fa pareva l’uomo della provvidenza, quel Mario «loden» Monti che è svicolato via nell’indifferenza generale.
Poi. La ripresa forse c’è davvero: il foyer della Scala sta ricominciando riempirsi di un gradevole «cafonal» che si credeva perduto nella notte dei Monti. Non è quel genere di articolo, questo: ma vedere Valeria Marini affianco al transessuale Efe Bal – tra l’altro si somigliavano – avrebbe stretto il cuore di Roberto D’Agostino.
Ultimissima: Con Daniela Santanchè c’era anche Alessandro Sallusti, finalmente: senza che qualche cretino ne indossasse la maschera come un paio d’anni fa. Fine del sommario, ora ricominciamo da capo. C’era un mare di poliziotti (professionali, mai sbracati, 750 uomini più o meno come la primavera scorsa) ma nessuna tensione, ci pare: anche grazie al rigore asburgico degli scaligeri. Niente a che vedere col concerto per l’inaugurazione dell’Expo, quando la piazza era surrealmente deserta: ieri hanno solo aperto le porte in anticipo per districarsi – si pensava – dai metal-detector, con le madame – si pensava – costrette a mettere i gioielli in vaschetta come all’aeroporto. Invece c’erano solo dei poliziotti che ti passavano addosso un apparecchietto tipo aspirapolvere portatile, tanto per vedere se avevi addosso un M60 o un bazooka. Il risultato è che mezz’ora prima c’era già una folla da paura accalcata nel foyer, a guardarsi e specchiarsi nel proprio status.
Gli accessi alla piazza erano bloccati sin dalla mattinata e sui tetti c’erano a quanto pare i cecchini (noi non li abbiamo visti) e le transenne per separarsi dal volgo erano più lontane del solito. Su tutto le unità antiterrorismo di Gis e Tuscania, con voci di segnalazioni dell’Fbi sulla Scala come obiettivo terroristico: ma non ne parlava nessuno, erano tutti lì ansiosi – molto in teoria – di ascoltare una delle più brutte opere di Giuseppe Verdi, forse la più brutta in assoluto.
LA RIVALSA DI FRANCIA
Ma è chiaro che in ballo c’era altro. I giornalisti forzano sempre analogie e paralleli, ma questa volta i significati arrivavano da soli e serviti su un piatto d’argento: Giovanna d’Arco infatti incarna la rivalsa di una nazione (tu guarda, proprio la Francia) con la volontà di scacciare gli invasori nonché una classe dirigente vile e accondiscendente: e veniva rappresentato, questo, mentre Oltralpe trionfava elettoralmente Marine Le Pen e il suo Front National, quello che ha per simbolo (tu guarda) proprio Giovanna d’Arco. Perfetto. E se Marine è un po’ anzianotta, eccoti la trionfante ventiseienne Marion Marechal Le Pen (nipote di Marine) che ha trionfato pure lei e che parlava, nei giorni scorsi, del «rischio burqua e sharia». Qualcuno ha pure azzardato un parallelo col rogo parigino del 13 novembre scorso: cazzata, anche perché la Giovanna d’Arco di Verdi è una sognatrice e – come da libretto di Schiller – non muore neppure sul rogo, anzi, si martirizza in battaglia come un musulmano qualsiasi. Ma non è il caso di fare i provocatori: non tanto noi, ma i soliti e citati velleitari genere «vieni avanti regista», che nel caso erano Moshe Leiser e Patrick Courier, due francesi modello Gad Lerner. A fronte (nazionale) dello spauracchio Le Pen, i due già avevano tenuto a precisare che Giovanna d’Arco «è un’icona che può essere pericolosa, perché giocare con Dio e con la nazione ed essere pronti a morire è pericoloso... di questo cerchiamo di parlare in quest’opera». Hai capito: decidono loro di che cosa parla l’opera, mica Verdi o il librettista. E ancora: «La nostra Giovanna non ha niente a che fare con i fatti di Parigi, l’opera non è una rivista d’attualità». La «nostra» Giovanna. Che poveracci, ’sti registi che si credono missionari culturali anziché, fondamentalmente, dei tecnici se possibile di talento. C’è di buono che la regia ha lasciato perplessi persino il pubblico degli orecchianti di ieri, un classico pubblico da Prima. Finito? In teoria no: magari vorreste che parlassimo anche della musica e dell’esecuzione, ma niente da fare. Lo scrivente detesta Verdi e detesta le opere giovanili di Verdi: non sarebbe onesto. Opera più brutta noi mai vedemmo: fine della recensione, e viva il compianto Massimo Mila che decenni fa inquadrò Giovanna d’Arco tra le opere verdiane cosiddette «brutte», declinazione testuale che, nel librettone della Scala, è stata ovviamente contestata dal musicologo Emilio Sala anche per doveri d’ufficio.
I GRANDI DIFETTI
Mica potevano scrivere, sul programma della Scala, «quest’anno inauguriamo la stagione con un’opera brutta». Del resto solo un testone orgoglioso come Verdi poteva definirla «la mia opera migliore», per quanto – già per l’epoca – apparisse ai limiti dello zotico e del grossolano, ricca di effettacci in parte replicati ieri e dunque perfetta, ancor oggi, per vellicare le ugole entusiaste degli orecchianti del zum-pa-pà e delle marcette binarie. Il valzer demoniaco del prologo è di una volgarità elementare, sconcertante: sta a un valzer vero (viennese, o anche russo) come l’inno d’Italia sta all’inno francese. Ma abbiamo detto che lasciavamo perdere: se Giovanna d’Arco non la rappresentavano mai, almeno alla Scala, forse una ragione c’era. Per il resto, qualche spigolatura: il baritono-star Carlos Alvarez ha fatto defezione come previsto, causa bronchite: l’ha sostituito Devid (con la «e») Cecconi, che ha avuto l’occasione della vita e se l’è cavata senza strafare. La sostituzione è stata annunciata prima dell’inno nazionale da un Alexander Pereira stile banditore del circo equestre: non era davvero il caso di presentarsi sul palcoscenico, ma Pereira non è nuovo a cadute di stile del genere. Su Anna Netrebko, alias Giovanna d’Arco, che aveva interpretato altre volte, l’esecuzione è stata allestita praticamente su misura. Solo conferme anche dal tenore Francesco Meli versione goldfinger, tutto ricoperto d’oro, mentre permane la sensazione che Verdi non sia propriamente la tazza di te del grande Riccardo Chailly. Delle regie, infine, non scriviamo volutamente più, ci arrendiamo: Moshe Leiser e Patrick Courier sono due ciarlieri che hanno cercato di mischiare lo stramoderno oggi imperante e il tradizionalismo che reclamava perlomeno qualche armatura, e spade, corazze, soprattutto la solita cattedrale di Reims che nel caso era alta nove metri ed è un bellissimo lavoro realizzato dai laboratori dell’Ansaldo. L’opera era ambientata del medioevo e loro l’hanno ambientata nel medioevo, e andava benissimo, ma poi, quasi a scusarsene, avevano precisato – in conferenza stampa – che il loro approccio però era «onirico». Non è la storia di Giovanna d’Arco: è la storia di Giovanna d’Arco sognata da un’instabile di mente. O dai due registi, se c’è differenza.