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 2015  dicembre 09 Mercoledì calendario

Soldi pubblici, sponsor e disillusione annebbiano l’immagine di Libera, creatura di don Ciotti

L’ultimo direttore, Luigi Lochi, è stato eletto da appena un mese e già si ritrova al centro di un conflitto di interessi che nessuno finora ha ritenuto di dover affrontare. Il penultimo, Enrico Fontana, si è dovuto dimettere all’inizio dell’estate per un incontro con due politici finiti nel calderone di Mafia Capitale. Il terzultimo era una donna: Francesca Rispoli, amica del pd Davide Mattiello, relatore del ddl sulla modifica del 416 ter. Anche lei nel settembre 2013 ha dovuto lasciare l’incarico: non aveva segnalato in tempo a don Ciotti che quella riforma, targata Nazareno, era persino peggiore della norma precedente, esponendolo a una pubblica retromarcia. Ma non è tutto. A giugno scorso si è dimesso pure il vicepresidente Carlo Andorlini: coinvolto in un’indagine della Corte dei conti su alcune spese ordinate quando era capo-gabinetto del sindaco a Campi Bisenzio, in provincia di Firenze. Una, due, tre dimissioni ‘imbarazzanti’ nel giro di un anno: strappi consumati in silenzio, senza clamore, all’interno di un’associazione che funziona come una moderna holding da quasi 5 milioni di euro all’anno, e nello stesso tempo viene descritta come una struttura arcaica, chiusa come una setta e riservata fino alla paranoia: quella che il suo stesso presidente onorario Nando dalla Chiesa definisce “una creatura fondata su un potere carismatico, dove la leadership non si discute”.
La leadership è quella di don Ciotti e le dimissioni a catena costellano l’ultimo capitolo della storia di Libera, una galassia che raccoglie oltre 1500 associazioni, gestisce 1400 ettari di terreni confiscati ai boss, ed è considerata il totem indiscusso dell’antimafia sociale. Non solo. Libera è l’invenzione stessa dell’antimafia, che per la prima volta, dopo Capaci e via D’Amelio, esce dalle aule dei tribunali e si ramifica sul territorio dove sono ancora fumanti le macerie del tritolo di Cosa Nostra.
Vent’anni sono passati da quel lontano 1995 quando don Ciotti a Palermo fonda la sua associazione, povera tra i poveri, infiltrandosi nel cuore delle borgate mafiose, nelle case, nelle scuole, per insegnare il rifiuto di Cosa Nostra e del suo strapotere. Ma oggi? Che ne è oggi di quella teologia della liberazione antimafiosa, di quella visione rivoluzionaria del Vangelo?
La sensazione è che tutto sia cambiato, a partire dall’idea stessa di antimafia, oggi fagocitata dal sistema, diventata anch’essa un pezzo di sistema, perché sempre più succube della necessità di assicurarsi risorse finanziarie. Al punto che il presidente del Senato Pietro Grasso, recentemente, ha voluto ricordare che “serve un’antimafia umile, per un fine comune, che non è certo quello di essere l’associazione più visibile o più finanziata”. Lo stesso don Ciotti più volte ha messo in guardia dai rischi di una banalizzazione dell’impegno contro le cosche: “L’antimafia – ha detto – è ormai una carta d’identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione”. Ma qualcuno osserva che pure Libera, come le altre associazioni che hanno nello Statuto il contrasto alla cultura mafiosa, è diventata una campionessa nel far incetta di finanziamenti pubblici.
L’organizzazione ha chiuso il bilancio 2014 in attivo di 207.317 euro, con disponibilità liquide pari a 883.431 euro e crediti per un milione e 81 mila euro, quasi tutti nei confronti di enti pubblici. La gestione dei beni confiscati, in convenzione con enti come Unioncamere, Telecom, Unicredit, frutta 60 mila euro. Le entrate dei diritti d’autore, 5 per mille, Fondazione Unipolis e raccolta fondi ammontano a 1 milione 268 mila euro. Solo Unipolis, la Fondazione di Unipol, che fa riferimento alla Lega coop, sgancia ogni anno 70 mila euro.
Poi c’è il capitolo dei finanziamenti europei, come quello del Pon Sicurezza da 1 milione e 416 mila euro, per migliorare la gestione dei beni confiscati, assegnato al Consorzio Sviluppo e Legalità, che raccoglie alcune cooperative della galassia antimafia in provincia di Palermo. Soldi, progetti, Pon, questo è il nuovo alfabeto di Libera. Che fa storcere il naso a tanti veterani del volontariato sociale, innamorati del don Ciotti predicatore di strada e paladino degli ultimi, e un po’ meno attratti dal don Ciotti manager che oggi ha un’agenda fitta di presentazioni, tavole rotonde e comparsate tv.
Nessuno parla apertamente. Ma sono tanti i delusi e gli scontenti che pongono una domanda cruciale: qual è la reale capacità di denuncia di un’antimafia che è appesa ai finanziamenti pubblici e appare sempre più consociativa al potere che tiene i cordoni della borsa? Qualcuno ha persino scritto che i commenti del prete duro e puro sono apparsi piuttosto tiepidi nei confronti delle coop rosse coinvolte negli affari di Mafia Capitale. L’associazione di don Ciotti rischia di addomesticarsi? È per questo che Franco La Torre ad Assisi, ha lanciato l’allarme sulla scarsa capacità di vigilanza sia a Palermo che a Roma?
Liquidato con un sms di poche righe, il figlio di Pio La Torre (il segretario del Pci siciliano ucciso dalla mafia nell’82) ha comunicato il suo divorzio da Libera, definendo don Ciotti un “despota” e sottolineando i limiti di un gruppo dirigente più attento a collezionare prebende che a denunciare le emergenze criminali. Don Luigi nega che l’associazione sia una holding: “Nessuno – dice – sporchi la nostra trasparenza”. Ma i suoi fedelissimi si sono chiusi a riccio. Non parla l’avvocato Enza Rando, dell’ufficio di presidenza, che difende i familiari delle vittime di mafia e nel frattempo ha ottenuto una consulenza da 25.000 euro presso la Regione Emilia Romagna (governata dal pd Stefano Bonaccini), oltre a far parte del cda della Cassa di Risparmio di Modena. Non parla neppure Fontana, lo stesso che La Torre ha additato come uomo-simbolo del nuovo corso di Libera: è l’ex consigliere regionale di Sel del Lazio che dal 2011 incassa un vitalizio, pur essendo il promotore della campagna “Miseria Ladra” contro i vitalizi, e due anni dopo, in piena giunta Polverini, diventa consulente del presidente del consiglio regionale pdl Mario Abbruzzese: 20 mila euro per un progetto antimafia.
E tace soprattutto il neo-direttore Lochi, dal ’91 al ’99 dirigente di Sviluppo Italia e poi collaboratore di Invitalia (il suo contratto è scaduto il 31 maggio): l’esperto della gestione dei beni confiscati. Appena quattro giorni dopo la sua nomina, avvenuta l’8 novembre, la Camera ha approvato la cosiddetta “norma Saguto”, che ha scatenato la furia del M5S. Perché? “La nuova legge – hanno spiegato i grillini – stabilisce che le aziende sequestrate, anche di grande rilievo, verranno gestite da Invitalia, erede di Sviluppo Italia, il carrozzone mangia-soldi dello Stato”. La stessa azienda dove ha lavorato per anni il nuovo direttore di Libera. Che dice Lochi? Nulla. È la nuova Antimafia, bellezza! Quella dei pennacchi e dei premi, delle liturgie e delle litanie sommerse da un fiume di denaro.