La Stampa, 9 dicembre 2015
L’Arabia Saudita tiene bassi i prezzi del petrolio per far fallire i produttori americani. Ma sta superando i limiti oltre i quali danneggia anche se stessa
La strategia da adottare in Siria, e soprattutto quella già scelta del dialogo con l’Iran, non sono gli unici elementi che negli ultimi tempi hanno separato l’Arabia Saudita dal tradizionale alleato americano. Dietro c’è anche una lotta feroce sul petrolio, con Riad che ha favorito il crollo del prezzo per mandare fallita l’industria dello «shale» negli Stati Uniti. Finora, però, l’operazione non ha funzionato, e i sauditi sono avviati a ricorrere al debito per finanziare il proprio bilancio.
Colpi anche a Russia e Iran
Le posizioni geopolitiche sono note. La monarchia wahabita voleva a tutti i costi la caduta del filo sciita Assad, e quindi ha come minimo chiuso un occhio sull’Isis, quando non l’ha finanziato attraverso facoltosi privati cittadini. Quanto all’Iran, unica potenza regionale in grado di contrastare l’Arabia, la scelta del presidente Obama di negoziare l’accordo nucleare non è mai stata digerita da Riad, che vede in Teheran la principale minaccia e il principale ostacolo per la propria egemonia nell’area. Il petrolio però, e quindi i soldi, hanno esacerbato questi contrasti.
L’Arabia è il primo produttore mondiale, con circa 10 milioni di barili al giorno, ma negli ultimi tempi si è vista minacciata dalla crescita dello shale oil negli Usa, cioè il petrolio di scisto raccolto con nuove tecnologie. L’aumento della produzione americana, sommato alla diminuzione della domanda provocata fra le altre cose dalla frenata dell’economia cinese, ha fatto scendere il prezzo del greggio dai 115 dollari al barile dell’agosto 2014, a sotto i 40 degli ultimi giorni. La ragione è semplice: gli analisti calcolano che al momento l’offerta sia 2 milioni di barili al giorno più alta della domanda. Questo calo del costo ha beneficiato i paesi importatori, come l’Italia, che hanno visto scendere i prezzi di molti beni e quindi il contenimento dell’inflazione. Nello stesso tempo, però, ha danneggiato gravemente i paesi produttori, tipo Venezuela e Russia, in piena crisi economica non solo per le sanzioni relative all’Ucraina.
La risposta più ovvia, in questi casi, è ridurre la produzione per far diminuire l’offerta e quindi salire i prezzi. In sede Opec, però, l’Arabia si è opposta a qualunque taglio dei barili estratti. Il motivo ufficiale era la volontà di conservare le proprie quote di mercato, ma quello ufficioso riconosciuto da tutti era spingere verso il fallimento l’industria americana dello shale. Secondo i calcoli degli analisti, infatti, per rimanere economicamente conveniente questa attività aveva bisogno che il prezzo del petrolio restasse almeno sopra i 70 dollari al barile.
Resistenza inaspettata
Questa soglia è stata largamente superata al ribasso, e in effetti diversi pozzi hanno sospeso le attività, soprattutto nel bacino del North Dakota che aveva guidato il boom dello scisto. Le aziende produttrici americane però si sono adeguate, e finora sono riuscite a sopravvivere. Chi si trova in difficoltà economica, invece, è proprio l’Arabia.
Riad per pareggiare il suo bilancio ha bisogno che il petrolio resti sopra i 100 dollari al barile, e quindi ha accumulato un deficit che la Jadwa Research ha stimato in 106 miliardi di dollari per il 2015. La monarchia wahabita ha riserve in divisa estera per circa 640 miliardi, e quindi può resistere, ma in estate il Financial Times aveva rivelato che a fronte di questa crisi, si preparava a emettere bond per 27 miliardi di dollari. In altre parole, entro gennaio dovrebbe ricorrere al debito.
All’ultima riunione dell’Opec l’Arabia ha tenuto duro, impedendo una riduzione della produzione, per cercare ancora di mandare fallito lo shale americano. Ma è una scommessa che sta diventando sempre più complicata, visto che ormai alcuni analisti arrivano ad azzardare un calo del petrolio fino a 20 dollari il barile.