la Repubblica, 9 dicembre 2015
Venti anni fa la sentenza Bosman che cambiò il mondo del calcio. Intervista all’ex giocatore
Il 15 dicembre 1995 la Corte di giustizia europea pronunciò una sentenza destinata a sconvolgere il mercato del calcio, riconoscendo le ragioni di Jean-Marc Bosman, che 5 anni prima aveva fatto causa al suo club: nel 1990 il Fc Liegi, con cui era in scadenza di contratto, negava il trasferimento al Dunkerque all’allora ventiseienne centrocampista belga. La sentenza escluse la possibilità per un club di reclamare un indennizzo, a contratto scaduto, ma soprattutto fece crollare il tetto dei 3 calciatori stranieri per squadra appartenenti all’Ue. La Corte di giustizia europea riconobbe infatti il principio della libera circolazione dei lavoratori nell’Ue, stabilito dal trattato di Roma. Per lo sport professionistico fu un terremoto: senza barriere nazionali (per effetto di altre due sentenze, dal 2011 la libertà di circolazione vale anche per i cittadini dello Spazio economico europeo e dei 79 paesi extraeuropei del trattato di Cotonou), cominciò l’era del mercato selvaggio, con la corsa alle stelle superpagate, l’aumento degli ingaggi, l’abbandono dei vivai. Dopo l’iniziale successo, Bosman visse il trauma del boicottaggio, da calciatore e da allenatore: fu costretto a smettere a 32 anni e precipitò nella depressione e nell’alcol, col solo sussidio di disoccupazione poi annullato. Oggi, a 20 anni dalla storica sentenza, lavora per la Fifpro, che ha presentato al commissario europeo per la concorrenza, la danese Vestager, una denuncia contro gli articoli 17 e 18 del regolamento Fifa sullo status e sul trasferimento dei calciatori. Contesta proprio le regole che hanno disatteso la Bosman: le restrizioni alla libertà dei calciatori meno famosi, le scappatoie al regolare pagamento degli stipendi, le rotture unilaterali dei contratti, lo strapotere economico dei grandi club.
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Bosman, che cos’è rimasto, 20 anni dopo, della rivoluzione che porta il suo nome?
«Il principio della libera circolazione degli sportivi all’interno dell’Ue resta indelebile. Prima c’era il tetto dei calciatori comunitari tesserabili da un club, oggi nessuno si sognerebbe di contestare che una squadra ne possa schierare anche 11».
Sul mercato, però, si è abbattuta la restaurazione: l’egemonia di pochi grandi club ha moltiplicato il potere contrattuale soltanto di pochi grandi calciatori.
«È vero, una parte degli effetti di quella sentenza è stata vanificata. Quando un calciatore si avvicina alla scadenza del contratto, spesso ci sono club che, per non perderlo a parametro zero, lo ricattano: o accetti il rinnovo alle nostre condizioni o ti mettiamo fuori rosa. È uno strapotere con cause precise».
Quali?
«All’epoca della sentenza il commissario europeo alla concorrenza era il compianto Karel van Miert. Lui fu molto fermo nel farne rispettare le conseguenze. Purtroppo non posso dire altrettanto del suo successore, Mario Monti. Non si è mai occupato di sport, lo ha gettato nella spazzatura. Così, durante il suo mandato, le pressioni politiche hanno avuto buon gioco e hanno permesso ai grandi club di plasmare le regole del mercato a proprio piacimento».
Si riferisce alle spese folli?
«Certo. Dopo il 2000 è diventato normale che i trasferimenti più importanti venissero pagati con cifre astronomiche, decuplicate rispetto al passato. La deregulation ha favorito ovviamente i club ricchissimi, rendendo impossibile agli altri la competizione. E la Fifa è stata connivente».
I grandi club vincevano anche prima.
«Ma non c’era l’abnorme divario economico attuale. E non esisteva il corto circuito per il quale si fa di tutto per partecipare alla Champions League, a prescindere dal risultato che poi si otterrà nel torneo».
Non esiste soluzione?
«Se lo si vuole, la soluzione c’è. Il calciatore, che è ridiventato una merce, deve tornare alla dignità di qualsiasi lavoratore all’interno dell’Ue: un lavoratore può cambiare liberamente posto di lavoro, un calciatore no. Colpa delle regole sui trasferimenti della Fifa, contro le quali la Fifpro, il sindacato mondiale dei calciatori, ha presentato una denuncia al commissario europeo alla concorrenza. Potenzialmente questa è la nuova Bosman».
Lo dice col dente avvelenato di chi da quella vicenda è stato schiacciato?
«Lo dico con la consapevolezza che, se il commissario Vestager darà ragione alla Fifpro, l’iniquo sistema di mercato costruito dai grandi club si ridurrà a un castello di carta. E che stavolta la battaglia è di un ente forte e ramificato, non di un uomo solo. Io non fui in grado di reggere quel peso psicologico, il boicottaggio della Fifa mi distrusse».
Si consolerà: il suo nemico Blatter ha perso l’impero.
«Era inevitabile, data la sua gestione da presidente della Fifa. Mi dispiace per Platini: era un ex calciatore e alla presidenza dell’Uefa sembrava propenso ad aiutare i piccoli club. Forse la vicinanza con Blatter lo ha cambiato: lupo non mangia lupo. Il lupo mangia tutti gli altri».
Lei si sente ancora un uomo divorato dal calcio?
«Io lavoro per la Fifpro con convinzione. Ho passato momenti molto difficili. Sono stato cancellato. Ho fatto arricchire gli altri e sono diventato povero. Ho pagato la mia buona fede, come quando la partita organizzata per me a Lilla fu un fiasco. Fino al 2000 ho avvertito un po’ di solidarietà, ad esempio dalla Nazionale olandese. Poi ci sono stati episodi isolati, ne ricordo uno in Italia prima di Milan-Arsenal».
Racconti.
«Nel 2012 Van Bommel, Gattuso e Seedorf mi vollero aiutare. Seedorf disse ai giornalisti che potevano parlarmi ognuno per 5’: non venne nessuno. Ma io non mi arrendo. La mia è una storia importante e i giovani la devono conoscere. Oggi il Belgio ha una generazione formidabile di calciatori: questi ragazzi devono sapere che, se sono diventati milionari, lo devono anche a me».
Bosman, il calcio italiano è in crisi politica, tecnica e di valori.
«Lo so. Ma come dite voi? Tutto va bene. C’è una canzone francese: “Tout va très bien, Madame la marquise”. Se non sbaglio, c’è anche la versione italiana».