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 2015  dicembre 09 Mercoledì calendario

Il giorno dopo il trionfo di Giovanna d’Arco. Parlano Riccardo Chailly e Devid Cecconi

Guiseppina Mani Per il Corriere della Sera

La scommessa era grande. E lei l’ha vinta...

«È stata una vittoria della Scala – precisa con forza Riccardo Chailly il giorno dopo al trionfo di Giovanna d’Arco —. Solo da un lavoro d’insieme nasce un successo come quello dell’altra sera. Determinante la coesione dell’intero teatro, l’entusiasmo collettivo, la bravura dei cantanti e del coro diretto da Bruno Casoni. E l’impegno appassionato delle maestranze. La Scala tutta ha dato il suo meglio».
Resta però che il primo a credere in quest’opera, a volerla come vetrina della sua stagione d’esordio da direttore principale, è stato lei.
«Era un debito morale da pagare a Verdi. Per un titolo ingiustamente dimenticato, relegato nell’assurda categoria delle opere “brutte”. Nata per la Scala, già in vita gli era costata molti dispiaceri, Giovanna determinò il suo “divorzio” dal teatro milanese. In polemica con l’allestimento dell’impresario Merelli, Verdi disertò la prima del 1845 e non affidò più al Piermarini un nuovo titolo se non 42 anni dopo, nel 1887 con Otello. Ma Giovanna non uscì mai dai suoi pensieri. Ci teneva così tanto a quest’opera, che giudicava “la migliore” composta fino a quel momento, che per la ripresa del 1865 impose come protagonista Teresa Stolz, il soprano che più di tutte ammirava, a cui affiderà anche la prima di Aida.
Lei l’ha riportata alla Scala 150 anni dopo con un’altra grande protagonista, Anna Netrebko.
«Anna è stata straordinaria. Una vera leonessa anche in questa versione tutta ripensata interiormente. Questa edizione critica, senza tagli, con le cadenze ripristinate ha richiesto a tutti un doppio impegno vocale. Bravissimo anche Francesco Meli, un Carlo VII appassionato e tenero. E il giovane Devid Cecconi».
Persino la regia, di solito punto debole di ogni 7 dicembre, stavolta ha convinto. Eppure quella di Leiser e Caurier non era certo convenzionale.
«Apprezzo che sia andata in questo modo. Quello della regia è un problema cruciale della lirica oggi. È complicato far coincidere le intenzioni del direttore musicale con quelle di chi cura la messa in scena».
Un incontro per lei felice?
«Quello con Nikolaus Lenhoff, il regista della Turandot che ho diretto lo scorso maggio per l’apertura dell’Expo».
Ad allestire il suo prossimo titolo scaligero, la pucciniana Fanciulla del West sarà invece Carsen.
«Robert ha una vasta cultura sull’immaginario dei western. Un genere che amo molto anch’io, da ragazzo non mi sono perso un film con John Wayne».
L’integrale di Puccini è il suo progetto cardine. Ma visto il successo di Giovanna continuerà anche il lavoro di riscoperta di un Verdi poco frequentato?
«Questo è l’avvio di un percorso interpretativo storicamente necessario. Stimo moltissimo il primo Verdi, mi piacerebbe riprendere altri suoi titoli per nulla “minori”. Penso a Alzira, a Stiffelio … E non solo. C’è un enorme patrimonio italiano di fine ‘800 e primi ‘900 a cui vorrei dedicarmi nei prossimi anni. Il nostro verismo musicale ha avuto grandi autori poi caduti nel dimenticatoio. La cena delle beffe di Giordano, in programma questa stagione alla Scala, è il primo passo in quella direzione».
La Scala tornerà quindi a essere il tempio della musica italiana?
«Metà dei titoli di ogni stagione verranno dal nostro repertorio. Il resto da quello internazionale e contemporaneo. La Scala è la vetrina della nostra grande musica, mi pare giusto privilegiare la nostra identità. Grazie ai media e alla Rai Giovanna è stata vista ovunque. Il mondo ha scoperto una nuova opera di Verdi».
Come avete vissuto in teatro le straordinarie misure di sicurezza?
«Come tutti, con preoccupazione ma anche con la certezza di aver fatto quanto si poteva dal punto di vista organizzativo. Dietro le quinte il clima era sereno, la musica di Verdi con il suo vigore ed energia patriottica ha aiutato. Il calore con cui il pubblico ci ha accolti ha fatto il resto. Spero che anche Verdi l’abbia sentito».

***
Alberto Mattioli per La Stampa

Alla fine, a parte forse il vestito della Santanché, tutto è andato benissimo. Contro Giovanna d’Arco niente attentati, né terroristici né loggionistici. Soltanto tanti applausi per tutti, circostanza insolita alla Scala in generale e per una prima in particolare. Nel giubilo collettivo, si inserisce la storia di Devid Cecconi (sì, proprio con la «e»), baritono di riserva promosso titolare a causa della bronchite di Carlos Alvarez, con tanto di fervorino pre-Mameli di Alex Pereira, che non perde occasione per arringare il pubblico. Storia operisticamente tipica: l’umile «cover» che sale in palcoscenico all’ultimo momento nell’occasione importantissima, fa bene e «a star is born». Così, nel day after, è Cecconi, 44 anni, fiorentino, in carriera dal 2006, il più intervistato di tutti.

Stanco?
«Un pochino».
Felice?
«Moltissimo».
Quando le hanno detto che avrebbe dovuto cantare?
«La sera prima della “prima”».
E lei cos’ha pensato?
«Ok, sono pronto».
Nemmeno un po’ d’emozione?
«Certo. Ma bisogna dominarla, altrimenti è lei a dominare te».
Comunque aveva già cantato «generale» e «primina»...
«Sì, ma in borghese, al proscenio, mentre Alvarez recitava. Ho imparato la regia in tre ore la mattina del 7».
Come mai conosceva la parte di Giacomo? La «Giovanna d’Arco» non si dà praticamente mai.
«Avevo già sostituito in corsa Renato Bruson in una produzione a Parma. Poi l’avevo cantata anche al festival di Buxton».
La «Giovanna» di Parma aveva una regia di Lavia particolarmente atroce. Meglio questa?
«Diciamo diversa. Più grande in tutto». 
Che voto si dà?
«Ah, no, quello dovete farlo voi. Diciamo che non mi sono dispiaciuto».
Alvarez cosa le ha detto?
«Niente, non abbiamo i rispettivi numeri. Mi dispiace per lui perché è una bella persona, perbene, carina».
E la Netrebko?
«È stata fantastica».
Sì, l’abbiamo sentita.
«Anche con me, intendo. Mi ha incoraggiato tutta la sera, in scena e fuori. Invece di fare la diva snob era sempre lì a chiedermi come mi sentivo. Sul palco mi ha anche furtivamente dato una carezza».
Il complimento più bello che ha ricevuto?
«Dal marito della Fracci, Beppe Menegatti, con cui avevo fatto Pagliacci una vita fa. Mi ha detto che gli avevo ricordato Bastianini. Beh, onorato».
E Renzi cosa le ha detto?
«Mi ha fatto i complimenti. Del resto siamo fiorentini tutti e due».
Ma lei non è di Campi Bisenzio?
«Ah, no. Ci vivo, ma sono nato a Firenze».
Pare però che a Campi siano impazziti per lei.
«Hanno anche messo un megaschermo in municipio. Il sindaco si messaggiava con Renzi, quindi quando il premier mi ha incontrato sapeva già tutto di me».
Del resto, eravate voi i due partecipanti «last minute» alla prima...
«Sa che non ci avevo pensato? È vero. Sarà destino...».
Pensa che la sua carriera adesso svolterà?
«Non lo so. Di certo, quel che è successo non è negativo...».
Questo è il nuovo record mondiale di eufemismo.
«Sì, ma io sono fatto così. Non mi monto la testa. Ho sempre lavorato con scrupolo, poi prendo quel che viene. Credo che la perseveranza e il lavoro, alla fine, paghino».
Dopo Milano dove andrà?
«A Lipsia, a cantare Rigoletto e Nabucco. Poi dovrei andare a Wiesbaden per debuttare Falstaff. Ma a questo punto non so se lo farò».
Certo, è un teatro ormai troppo poco importante per lei...
«La ragione è un’altra. Con questo mese di lavoro imprevisto alla Scala, non so davvero se avrò tempo di studiare la parte».