Corriere della Sera, 9 dicembre 2015
Tre padri, due mondi e una guerra. La vita di Ismail, il bambino perso nello stato del Califfo
Ismail ha già conosciuto tre padri, la guerra e due mondi: l’Italia, dove è nato e ha vissuto con i genitori fra le montagne bellunesi di Longarone; e lo Stato Islamico, dove papà Ismar ha voluto portarlo dopo aver deciso che la sua missione non era quella di imbianchino in Cadore ma di combattente in Siria. Ismar Mesinovic, bosniaco di Doboj, non combatté però a lungo. Arrivato nella terra del Califfo il 22 dicembre del 2013, morì venti giorni dopo. E così Ismail, che oggi ha quattro anni, si ritrovò in un mese senza mamma, rimasta in Italia ignara delle intenzioni del marito, e senza papà, caduto in battaglia a 34 anni. Affidato ad alcune donne di Raqqa, la «capitale» dello Stato islamico, Ismail è stato educato secondo una rigorosa sharia, che non prevede l’adozione ma pretende nella famiglia di affido l’esistenza di una figura paterna. Le nuove mamme di Ismail facevano infatti riferimento a un uomo, il combattente Said Colic, pure lui bosniaco e dunque vicino al «fratello» Mesinovic. Ma anche quest’altro «padre» non ha avuto vita lunga, morto pure lui sotto il fuoco della guerra. E dunque il bambino si è ritrovato nuovamente orfano.
«Da quanto ci risulta ha dovuto lasciare anche la famiglia di Colic proprio perché la loro legge stabilisce che i bambini devono avere un padre. Dovrebbe essere stato affidato a una famiglia bosniaca che si è trasferita ad Aleppo», rivela il procuratore antiterrorismo di Sarajevo, Dubravko Campara, che si è occupato personalmente del caso. La vicenda del piccolo Ismail incrocia infatti quelle di vari «foreign fighters» bosniaci sui quali sta indagando da anni il magistrato. In particolare Bilal Bosnic, uno dei più grandi reclutatori di combattenti d’Europa, finito anche nei fascicoli d’inchiesta di Belluno e Venezia per il caso Ismail e per terrorismo.
Fra i documenti dell’inchiesta di Belluno anche il racconto di Lidia Solano Herrera, madre di Ismail e vedova di Ismar, cubana di 35 anni, da anni residente in Valbelluna. La donna racconta così gli anni della radicalizzazione del marito: «Ho notato in Ismar un notevole cambiamento caratteriale e religioso nei mesi di giugno e luglio 2013. Con Munifer e il padre di quest’ultimo, Anass, andò al Centro islamico di Castelfranco Veneto dove doveva esserci un imam originario della Bosnia, Bilal Bosnic. Dopo quindici giorni mi disse che sarebbe partito per andare a prendere Bosnic. Doveva portarlo al centro islamico di Pordenone. Ricordo che aveva passato la notte pregando e parlando con gli amici. Da quel giorno i nostri rapporti sono peggiorati».
Il cambiamento di Ismar è motivo di angoscia: «A casa stava quasi sempre al computer, pregava molto più di prima e ha iniziato a trasformare anche l’aspetto: si è fatto crescere la barba lunga, rientrava a casa sporco di terra e iniziava a farmi pesare il comportamento non consono ai precetti islamici. Io ero di religione cattolica e lui mi obbligava a uscire di casa indossando il velo islamico e voleva che mi convertissi all’islam». Lidia qualche concessione l’aveva fatta: «Ci eravamo sposati con rito musulmano». Ma ad Ismar non bastò perché il suo maestro chiedeva di più.
«Diventò aggressivo, mi picchiava quando gli rispondevo e mi limitava nei movimenti. Ricordo anche che sgridava nostro figlio perché ballava». In quei mesi la situazione precipitò al punto da diventare insostenibile. Decisero di separarsi e Lidia tornò a vivere con la sorella a Ponte nelle Alpi. «Tentai di portarmi il piccolo ma lui me lo strappò dalle braccia».
A dicembre Lidia parte per Cuba, Ismar per la Bosnia. «Doveva starci 10 giorni a trovare i suoi parenti e invece l’ho rivisto a gennaio, in foto, morto». Con Ismar c’era anche un altro bosniaco, Munifer Karamaleski, padre di famiglia macedone residente nel bellunese, e Rok Zavbi, uno sloveno. Viaggiano in macchina, attraversano sette frontiere e arrivano nello Stato Islamico.
Dopo la morte di Mesinovic, parlare con il piccolo Ismail è diventato per Lidia impossibile. La mamma contatta Kalamaleski che dice di sapere dov’è il piccolo ma può fare poco. Le fanno sapere da Raqqa che «per riavere il bambino deve presentare il certificato di matrimonio islamico e civile, copia del passaporto, l’attestazione della conversione e il certificato di nascita di Ismail». Lei invia parte dei documenti a un imam di Vienna ma non succede nulla. A luglio del 2014 un uomo di nome Mohsen Chemingui che ha acquisito uno stabile nel Bellunese per farci un centro culturale islamico bussa alla sua porta. «Posso aiutarti perché conosco l’emiro di Raqqa». Mohsen conosce la «radicalizzata» italiana Giulia Sergio «Fatima» che potrebbe fare da tramite con la Siria. Ancora nulla. Nel frattempo muore anche il secondo padre di Ismail e spunta la famiglia di Aleppo. Ultimo rifugio del piccolo, nato in un mondo e finito in un altro. Intorno a lui mille trattive, decine di intermediari, combattenti che vanno e vengono dallo Stato Islamico, che pregano, che uccidono, che muoiono. Mentre lui è ancora nello Stato del Califfo.
Il magistrato di Sarajevo Čampara, che nel corso dell’indagine ha fatto tappa anche a Belluno e Venezia per incontrare i magistrati italiani, ha un timore: «Penso sia molto difficile che si possa riportare in Italia il bambino, considerata la situazione di grande tensione».
Una paura che fa disperare mamma Lidia. Ai signori della guerra scrive parole dolci: «Io sono la madre di Ismail e vorrei averlo con me perché è la mia vita».