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 2015  dicembre 08 Martedì calendario

Come Ottaviano, così vile in battaglia, divenne Augusto

A spalancare le porte del successo al diciannovenne Ottaviano, fu un «difetto di pianificazione» da parte degli attentatori di Cesare: Bruto, Cassio e compagni («tra cui c’erano ottimati, ma anche cesariani e personaggi non attribuibili ad alcuno schieramento preciso»). È questa la tesi iniziale dell’interessantissimo Augusto di Arnaldo Marcone, pubblicato da Salerno. L’assenza di un «progetto per il dopo» portò in quel 44 a.C. a un generale stato di confusione. Un caos ben ricostruito anni fa da Arnold Hugh Martin Jones nel suo Augusto (Laterza), laddove si spiega come l’errore iniziale dei congiurati fu probabilmente quello di non aver seguito il consiglio di Cicerone, cioè di eliminare anche Antonio («Bruto fu il più deciso nel volerlo risparmiare», sottolinea Marcone). Con le conseguenze che, per vie tortuose, ne venne fuori un disordine che durò per tredici anni, fino alla battaglia di Azio (31 a.C.) nella quale Ottaviano sconfisse Antonio e Cleopatra. Una concatenazione di eventi approfondita con considerazioni non scontate da Giovannella Cresci Marrone in Marco Antonio. La memoria deformata (Edises). Fu solo nella battaglia di Azio che si completò l’ideale passaggio di consegne tra Cesare e il suo figlio adottivo Ottaviano Augusto.
Nella storia di quegli anni, ha scritto Luca Canali in Augusto, braccio violento della storia (Bompiani), sarebbe stato difficile trovare due personalità tanto diverse fra loro… Cesare aveva voluto con sé Ottaviano, appena adolescente, nel corso di due spedizioni, in Africa e in Spagna. In quelle due circostanze avrebbe scoperto «la gracilità delle membra e il pallore a volte mortale di quel ragazzo, ma anche la sua ostinazione tirata fino allo spasimo in qualsiasi situazione, fosse pure di grave rischio o di dura fatica». Canali, domandandosi che cosa Giulio Cesare avesse trovato in quel «sedicenne schivo e taciturno», si è spinto a ipotizzare che avesse individuato in lui, sia pure in nuce, «la innata capacità di trasformare una rivoluzione ancora in atto in un regime illuminato ancorché autoritario fino al dispotismo». Marcone ricorda che, secondo Svetonio, a Munda, la località della Spagna meridionale dove nel marzo del 45 si svolse una decisiva battaglia contro i seguaci di Pompeo, Cesare pensò addirittura al suicidio: fu probabilmente in quegli attimi che scelse il nipote Ottaviano (la sorella di Cesare, Giulia, era sua nonna) come successore. E, dopo la vittoria ispanica, gli concesse di seguirlo nella carrozza più prossima alla sua, dove sedeva con Marco Antonio, nei giorni in cui attraversò trionfalmente l’Italia.
Vennero poi le Idi di marzo e, dopo l’uccisione di Cesare, il caos di cui abbiamo detto all’inizio. Una notevole carenza di senso delle prospettive accecò all’epoca anche Cicerone, ondivago nei suoi giudizi sui protagonisti di quella fase storica e ossessionato dall’idea che Antonio potesse trasformarsi in un nuovo tiranno. Ed è a questo punto che si produce quello che Luca Canali ha definito il «pasticcio di Modena». A Modena nel 43 a.C. Ottaviano combatté la «prima vera battaglia (quasi una guerra)» che «vide capovolte e violate le motivazioni politiche delle parti in conflitto». In che senso? Ottaviano prese la decisione di schierarsi con i due consoli in carica, Aulo Irzio e Gaio Pansa, i quali sostenevano Bruto, uno dei congiurati che avevano ucciso Cesare. Paradossalmente il nemico del figlio adottivo di Cesare, in quella occasione, fu Marco Antonio, cesariano da sempre. La battaglia fu sanguinosissima, Irzio e Pansa morirono in combattimento, ma Antonio venne sconfitto, dovette lasciare il campo e attraversare le Alpi.
Ancor più imprevedibile quel che accadde in seguito. Ottaviano, dopo questa che per Canali fu una «guerra assurda», si riconciliò con Antonio e passò di nuovo «dalla parte della rivoluzione», marciò su Roma e chiese a soli vent’anni il consolato (mentre l’età minima per ottenerlo avrebbe dovuto essere di trenta) al posto di Irzio e Pansa, caduti, come s’è detto, in battaglia. A tale richiesta «completamente anomala e avventata», i senatori «cedettero atterriti dalle minacce di rappresaglia». Soprattutto dopo che un centurione di Ottaviano entrò nella aula senatoriale con la spada sguainata e disse: «Se non lo farete console, lo farà quest’arma». Così il figlio adottivo di Cesare ottenne il consolato, furono stilate le liste di proscrizione e «il sangue corse a fiumi».
Alludendo in modo quasi esplicito al passo di Benito Mussolini dell’ottobre 1922, Luciano Canfora ha definito, fin dal titolo di un suo fortunatissimo libro, quella di Augusto La prima marcia su Roma (Laterza). «Atto eversivo ammantato di legalità», ha scritto Canfora, «quella precoce conquista a mano armata della più alta magistratura della Repubblica fu, per il giovanissimo e già più che maturo erede di Cesare, il presupposto fondamentale della successiva sua costruzione politica che segnò per secoli la storia del mondo». Certo, scrive Marcone, la caccia all’uomo che si scatenò in quei giorni – e che ebbe in Cicerone la sua vittima più illustre – «lascia un’ombra incancellabile sul giovane Ottaviano, anche se è verosimile che, almeno in un primo tempo, abbia cercato di opporsi alle proscrizioni, dal momento che non aveva nemici personali in Senato da colpire». Ma questo era probabilmente un suo punto di forza, dal momento che stava per giungere l’ora dello scontro finale con gli artefici della congiura del 44 a.C.

A Filippi, nell’ottobre del 42 a.C., gli eserciti dei cesaricidi e dei triumviri si scontrarono due volte, e in entrambe le occasioni, sottolinea Werner Eck in Augusto e il suo tempo (Il Mulino), «il vero vincitore fu Antonio». Il quale, successivamente, rappresentò Ottaviano come «un vile codardo che si era nascosto davanti al nemico». Effettivamente, scrive Eck, le cose andarono più o meno come aveva detto Antonio e l’assetto successivo risentì di questa forza di Antonio, nonché dell’altrettale debolezza di Ottaviano. Il primo tenne per sé il comando sulle Gallie e ricavò dall’Oriente il denaro per sistemare i suoi veterani. Al secondo toccarono le province spagnole (a danno di Lepido); in Italia dovette cacciare abitanti dalle loro terre per far posto ai soldati che avevano combattuto per lui. Eck ha censito almeno diciotto città italiche colpite, da alcune delle quali si dovette mandare via l’intera popolazione. Con qualche eccezione, come nel caso di Virgilio che, vicino a Mantova, riottenne i beni paterni. E che, in virtù di ciò, in una delle Egloghe espresse tutta la sua gratitudine e lodò quella di Ottaviano come un’«epifania divina». Ma la massa della popolazione di queste città lo maledisse e le immediate conseguenze dell’operazione misero Ottaviano persino in pericolo di vita: gli espropriati avevano prontamente trovato un portavoce in Lucio Antonio, fratello del triumviro.
Fu in quel momento che, secondo Marcone, in un certo senso Ottaviano «inventò l’Italia». L’esperienza delle guerre civili «aveva lasciato un segno». Ottaviano «recepì precocemente che quella stagione doveva essere superata per sempre e fece di tutto, una volta divenuto Augusto, per ridimensionarne il ricordo». Augusto «scelse l’Italia come sua interlocutrice privilegiata». L’appello che fece nel 32 a.C., alla vigilia dello scontro finale con Antonio, «assume un valore del tutto particolare, che trova conferma nei successivi sviluppi ideologici». Sembra allora valorizzarsi, scrive Marcone, «un concetto polivalente di Italia, di tutta la penisola italica, che diventa un fattore ideologico – e politico – di riferimento». Esso va apparentemente «al di là dello stesso mito troiano dell’arrivo di Enea nel Lazio, che era pur sempre nato con una funzione essenzialmente riferita all’esterno, al mondo greco in primo luogo».
E venne l’ora della battaglia di Azio, a seguito della quale Ottaviano divenne, secondo Cassio Dione, «il signore unico di Roma», al punto che «il conto degli anni del suo regno si fa proprio partendo da questo giorno», ciò che, secondo Marcone, rende esplicito «il valore epocale, periodizzante» di quella vittoria. È qui che inizia il regime augusteo. Perché regime? Alla riconoscenza di Virgilio si aggiunse l’ossequio di molti altri intellettuali. Augusto «incoraggiò in tutti i modi gli ingegni del suo secolo», scrisse Svetonio; «ascoltò benevolmente e pazientemente chi gli recitava cose proprie, non soltanto di poesia e storia, ma anche orazioni e dialoghi». Grazie a loro, agli uomini d’ingegno di cui si circondò, nell’età augustea la propaganda – ha messo in luce Ronald Syme nello straordinario La rivoluzione romana (Einaudi) – ebbe maggior peso di quello che le armi avevano avuto nelle lotte del periodo triumvirale.

Syme ha descritto Augusto come un personaggio in possesso di «un impareggiabile senso dello spettacolo» e, ad un tempo, «dotato di grandi capacità organizzative», capace di scegliere «oculatamente» i propri collaboratori. «Il capo di gabinetto di Augusto, Mecenate, si preoccupò di catturare, quasi giovani fiere, i poeti più promettenti e di ammaestrarli in modo conveniente al principato». Augusto presenziava alle loro letture, ma insisteva che le sue lodi «fossero cantate solo in opere seriamente impegnate e dai migliori», ha scritto Syme rifacendosi a Svetonio. Un clima magnificamente descritto da Antonio La Penna in Orazio e l’ideologia del principato (Einaudi). E, in tempi più recenti, da Augusto Fraschetti in Augusto (Laterza).
Mecenate poi ebbe il grande merito, secondo Marcone, di restare «sostanzialmente estraneo al grande gioco politico», per una scelta «che attingeva a una precisa filosofia di vita». Ma, mette in guardia l’autore, attenti a presentare Augusto come «un uomo della propaganda», in particolare se questo termine «viene utilizzato in modo indifferenziato e con implicazioni eccessivamente modernizzanti». Augusto fu soprattutto un imperatore di grandi realizzazioni. Non tutto, tra l’altro, andò liscio: lo testimoniano la messa al bando delle poesie di Cornelio Gallo, l’invio di Ovidio in esilio. E, a dispetto di quel che scrisse Tacito, le numerose manifestazioni di ostilità: Egnazio Rufo, Marco Emilio Lepido, Cinna Magno, Fannio Cepione, Licinio Varrone Murena. Anche se, sostiene Svetonio, le cospirazioni furono «tutte scoperte prima che diventassero pericolose».

Di pari passo all’affermazione di Augusto, la memoria di Cesare andò sfumando. Duemila anni dopo, per il fascismo – ha notato Luciano Canfora in Augusto figlio di dio (Laterza) – nella fase «rivoluzionaria» della presa del potere il riferimento di Mussolini era stato Cesare, ma per il fascismo «regime» (sono come è noto le categorie introdotte da Renzo De Felice) il modello fu invece Augusto. Ma Cesare rimase sullo sfondo. Così come nell’attuale impero cinese, prosegue Canfora, pur essendo il richiamo a Mao sempre più pallido, il suo ritratto resta all’ingresso della Città proibita. Allo stesso modo nella Russia post-sovietica di Putin ci si richiama a Stalin, vincitore della guerra contro gli invasori da Ovest. E Volgograd una volta l’anno, nei giorni di anniversario della conquista di Berlino, torna a chiamarsi Stalingrado.

Collocato dunque Cesare in un lontano empireo, nella cultura augustea, scrive Marcone, la presenza indubbiamente rilevante di Troia «può essere riconducibile all’accentuata consapevolezza della minaccia orientale». È da considerare come «l’idea etnico morale dell’Italia assurga a tema politicamente forte nel momento delicato del passaggio dall’età triumvirale alla costituzione del Principato». La tota Italia diventa «un argomento ideologico e culturale, oltre che politico, che va oltre il motivo della consanguineità tra i vari popoli della penisola, che pure era stato impugnato dai Gracchi e ripreso in varie circostanze, con finalità diverse, prima e durante la Guerra sociale». Augusto decise «di non governare l’Impero in modo arbitrario e autocratico come nel 30 avrebbe potuto fare». È una scelta «che ha puntuali riscontri a vari livelli». Anche se «la nozione extra costituzionale di auctoritas, valorizzata a giustificazione della sua azione politica, possiede indiscutibilmente una valenza di natura religiosa», va detto che il «rifiuto di un culto esplicito della sua persona, in forme di derivazione orientale», è coerente con la sua scelta di fondo. Certo, la trasmissibilità del potere a eredi, scelti tra l’altro all’interno della propria famiglia, è priva di fondamento legale e «rappresenta una delle contraddizioni irrisolte del regime augusteo». Ma nel concetto di res publica restituta («per quanto limitato sia il riscontro oggettivo che esso ha nelle fonti») si può apprezzare «un’idea forte di legalità che significa in primo luogo il ripudio degli arbitri dell’età triumvirale». E non è cosa da poco.