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 2015  dicembre 07 Lunedì calendario

Così Chandler mi ha cambiato la vita

È interessante notare come sia approdato seriamente al genere noir e a Raymond Chandler, e infine ad Addio, mia amata, attraverso la fantascienza. Ma su questo tornerò in seguito. Sono cresciuto nutrendomi di fumetti e supereroi e, alla fine degli anni Cinquanta, malgrado la mia giovane età, già iniziavo a consumare avidamente libri per adulti. Leggevo gialli e polizieschi, mi piacevano i libri di Poe e Sherlock Holmes, ma ero soprattutto alla ricerca di storie come Il mistero del falco, La morte paga doppio/La fiamma del peccato, Il postino suona sempre due volte, Il grande sonno e roba simile, anche se ancora non ne ero cosciente. Conoscevo queste storie solo attraverso i film trasmessi nel nascente mezzo televisivo, e non attraverso i libri, e quei film mi piacevano davvero tanto. Ombre, uomini duri, pneumatici che stridono sull’asfalto, spari, fumo di sigarette, bambole bionde talmente sexy da ridurre un eunuco in lacrime. Quando ero giovane non mi chiedevo chi scrivesse storie del genere. Ho iniziato a pensarci dopo. Ma amavo quei film e amavo la fantascienza, e nei primi anni Settanta mi sono innamorato dei romanzi in prima persona scritti da un autore di fantascienza di nome Keith Laumer. La maggior parte di ciò che scriveva in terza persona non aveva alcun effetto su di me. Ho sempre preferito la narrazione in prima persona, a qualsiasi altra. Non sono stato forse svezzato con i racconti in prima persona di John Carter di Marte di Edgar Rice Burroughs? Anche Le avventure di Huckleberry Finn di Twain ha lasciato un segno profondo in me, quasi come una ferita, e la lama che mi tagliava più a fondo era proprio quella della narrazione in prima persona perché riuscivo con maggiore facilità a penetrare la mente dei protagonisti, a conoscere e sperimentare gli eventi come loro. Lo stesso è accaduto in seguito con Il buio oltre la siepe, e via dicendo. Anche la narrazione in terza persona mi piaceva, ma secondo me c’era una magia particolare nell’approccio «Vi racconto una storia che mi è capitata» oppure «Questa è una storia che mi è stata raccontata». Keith Laumer ha scritto splendidamente in prima persona. I suoi libri come Il segno dei due mondi e A Plague Of Demons possedevano lo stile scoppiettante di alcuni vecchi film che adoravo. A quel punto mi ero reso conto che quei film erano spesso tratti da libri, ma non ne avevo letto nessuno, quindi non sapevo che lo scrittore preferito di Keith Laumer fosse Raymond Chandler, e che il suo stile fosse profondamente influenzato da lui. Poi Laumer scrisse un giallo. Lo trovai in edizione economica. Si chiamava Fat Chance. Ne avevano fatto anche un film. Ma non credo che il film si intitolasse così. Era interpretato da Michael Caine, lo vidi a distanza di anni e non mi piacque granché. Ma il libro mi conquistò completamente. I protagonisti parlavano come le persone che conoscevo, con similitudini e metafore meravigliose. Mio padre, che per gran parte della sua vita non ha saputo né leggere né scrivere, e quando ha imparato a farlo riusciva solo a decifrare il giornale, i fumetti e forse una storia breve, parlava così, quando parlava. Era pieno di proverbi e buffi modi di dire. Penso che questo modo di parlare si erediti, infatti anche lui lo ha trasmesso a me. Perciò per me era un linguaggio familiare. I personaggi di Laumer assomigliavano alla gente vera. Fat Chance era un po’ una parodia, anche se in quel momento non lo sapevo, ma la cosa più importante del libro, con il suo detective privato, Joe Shaw (che prendeva il nome dal famoso editore della Black Mask), era la sua dedica. Era dedicato a Raymond Chandler. Quel nome mi diceva qualcosa e nonostante non sapessi dove lo avevo visto, lo conoscevo. Se Fat Chance, che mi era piaciuto così tanto, era dedicato alla memoria di uno scrittore scomparso da tempo, allora avrei dovuto leggere Raymond Chandler, e vedere di cosa si trattava. Ci sarà stato qualcosa nell’aria perché quasi per magia, sbirciando fra i libri in mostra su un espositore girevole in un negozio del college, mi balzò agli occhi Il grande sonno di Raymond Chandler. Pensai: «Bene, questo è il tizio della dedica di Laumer». Lo portai a casa e lo lessi, restandone catturato. All’epoca era tutto molto diverso da oggi. Non potevamo andare su Internet e ottenere informazioni sui libri di un determinato scrittore. Bisognava dargli la caccia. Ma in questo caso non fu difficile. I libri di Chandler spuntavano da tutte le parti; c’era un revival dell’autore e neanche lo sapevo. In ogni caso trovai Addio, mia amata (in seguito anche il resto dei suoi libri) e quando lo lessi, da semplice fan diventai un super fanatico di Chandler. Per molti anni l’ho imitato in modo pedissequo e la sua opera mi ha fatto conoscere altri importanti scrittori di storie noir e del mistero. Ne ho amati molti, Dashiell Hammett, James Cain, tutti i grandi scrittori classici del Gold Dagger, ma Chandler, lui era superiore. Non si trattava solo della storia e dei personaggi, ma anche del linguaggio, così fluido e sfrontato, come una macchina sportiva con una modella nuda al volante, con una gamba lunga e sinuosa appoggiata sul cruscotto e l’altra ben ferma sull’acceleratore. Mi sentivo affine alla sua scrittura e stranamente anche allo stesso Marlowe. Mi piaceva il fatto che Marlowe fosse un cavaliere in una terra selvaggia, come diceva la vecchia canzone Have Gun Will Travel. Iniziai a inviare ai giornali le mie imitazioni di Chandler. Ricordo Set Up, la storia che mandai al «Mike Shayne Mystery Magazine». Cercavo di creare la stessa atmosfera misteriosa tipica di Chandler. È stato criticato per non aver scritto gialli dai risvolti perfetti, ma era proprio questo che mi piaceva di lui. Chandler una volta disse che aspirava a scrivere il genere di noir che la gente è disposta a leggere pur sapendo che l’ultima pagina è stata strappata. E così faceva. Non era semplicemente il mistero ad avvincere il lettore, ma anche i personaggi e il linguaggio usato. Tuttavia la mia storia, Set Up, era più di una involontaria parodia di Chandler, e l’editore me lo disse, ma poiché pensava che fosse buona, mi chiese di mandargli qualcos’altro. Revisionai la storia e gliela inviai di nuovo, e lui mi riscrisse dicendo che era migliorata; a quel punto gliela rispedii continuamente, quasi come una punizione, fino a quando non mi disse: «Ogni volta che vedo questa storia, la odio sempre di più». Col tempo ho venduto diverse storie, ma l’ho fatto attraverso una costante rilettura di Chandler, cercando di comprendere il suo metodo che sembrava suggerire: scrivete la migliore scena e il miglior dialogo possibili fra le persone, avvolgendo il tutto in un clima di suspense e di mistero; in questo modo non sarà importante se alla fine tutto combacia. La cosa importante sono le scene e se ci sono delle buone scene, il lettore vi perdonerà qualsiasi cosa. Se c’è un romanzo di Chandler che incarna tutto ciò, è Addio, mia amata. Il mistero in qualche modo è un po’ forzato, ma la bellezza della prosa, le scene straordinarie, il dialogo intelligente e di forte impatto, le descrizioni magnifiche, lo elevano al di sopra delle migliaia di storie che raccontano di persone morte in un salotto dove tutto alla fine si risolve come se si trattasse di un cruciverba. Addio, mia amata trasporta l’eroe di Chandler, Marlowe, in un mondo oscuro di delitti e corruzione, di belle donne di bassa lega che cercano l’occasione della loro vita. Crimini e menzogne sono radicati anche nel passato e questo in seguito diventa il tema caro agli scrittori hardboiled, fra cui spicca, ovviamente, Ross McDonald. Addio, mia amata mi ha letteralmente cambiato la vita. Non ho mai smesso di amare la fantascienza, ma questi noir meravigliosi mi hanno condotto lontano dal genere più primitivo della fantascienza a cui mi ero sempre dedicato, per inoltrarmi in un mondo dove gente vera fa cose vere, per motivi veri, e non solo per soddisfare l’intreccio. Chandler stesso suggerisce, nel suo grande saggio La semplice arte del delitto, di restituire il crimine a chi lo commette davvero. La poesia della sua opera è insita nel suo realismo: la magia trasuda da un abito stropicciato, un cappello raggrinzito, una cravatta sporca di sugo. I suoi personaggi assomigliano a persone che conosco o che conoscevo, anche se le mie conoscenze provenivano da un ambiente rurale, a differenza di quelle di Chandler. Tuttavia erano spinte dalle stesse motivazioni, esigenze e desideri, guidate selvaggiamente dai loro sogni al di là della ragione; dirette verso ciò che sembra uno splendido tramonto, quando invece procedono a tutto gas verso l’invitante fiamma scaturita da una vasta e profonda discarica in cui precipiteranno; un piccolo inferno a buon mercato, di delusioni e di ambizioni mal riposte. Tutti i libri di Chandler mi commuovono, in un modo o nell’altro, ma credo che Addio, mia amata rappresenti lo scrittore al suo meglio. Neanche il tanto elogiato Il lungo addio riesce a trasmettermi la sensazione che mi dà questo libro, che mi illude di aver sfiorato una grande verità, di averla quasi afferrata, ma non del tutto posseduta. Questo perché è un mito e il mito è una verità percepita ma non compresa. Il mito è la casa serrata che cela le nostre speranze e i nostri sogni. E Chandler mi ha dato la chiave. (traduzione di Sabrina Pellegrini)