La Gazzetta dello Sport, 6 dicembre 2015
Il calcio al tempo delle Br
Un uomo con i baffi cammina velocemente sul marciapiedi, si guarda attorno sospettoso. Assieme a lui ci sono altre tre persone. Scendono le scale che portano al piano sotterraneo della stazione Termini a Roma. L’uomo con i baffi s’infila in una cabina telefonica, gli altri tre restano fuori di guardia. Sono le ore 16.32 di domenica 30 aprile 1978. Militari, poliziotti e carabinieri, lì vicino, controllano i passeggeri che salgono e scendono dai treni: è in corso un’imponente operazione di sicurezza. Dal 16 marzo, in tutt’Italia, si susseguono azioni come questa: quel giorno le Brigate Rosse hanno rapito Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, e hanno ucciso gli uomini della scorta. Lo Stato è sotto assedio: i terroristi hanno colpito il cuore della vita politica. L’uomo con i baffi alza la cornetta e compone il numero di telefono. Aspetta qualche secondo, poi inizia a parlare. Due, tre minuti. La conversazione è registrata. I suoi amici, fuori dalla cabina, sembrano molto nervosi: gli fanno cenno di chiudere la comunicazione, è troppo pericoloso. Invece nessuno li riconosce e nessuno li segue. Quell’uomo è Mario Moretti, il capo delle Brigate Rosse, scortato da altri tre terroristi. Ha appena chiamato a casa di Aldo Moro e ha parlato con la moglie del politico, la signora Eleonora. Le ha detto che non c’è più tempo, la Democrazia Cristiana deve dare un segnale chiaro, le Brigate Rosse vogliono aprire una trattativa per la liberazione dell’ostaggio altrimenti, Moretti usa proprio queste parole, «nelle prossime ore accadrà l’inevitabile». Cioè, Aldo Moro sarà ucciso. È uno dei momenti più difficili per la fragile repubblica italiana: c’è chi vorrebbe dialogare con le Brigate Rosse e chi, invece, chiude la porta a questa possibilità. A vincere è proprio questa seconda fazione, la cosiddetta «linea della fermezza»: uno Stato democratico non può scendere a compromessi con un’organizzazione criminale.
Sono giorni di tensione e di dolore. E, come spesso accade in questi casi, ci si aggrappa al calcio per evadere dai brutti pensieri. Proprio nel momento in cui Mario Moretti parla con la moglie di Aldo Moro, nella stessa città, allo stadio Olimpico di Roma, sta andando in scena una partita della penultima giornata di campionato: Roma contro Juventus. Non è una sfida come le altre perché, a seconda del risultato, i bianconeri possono conquistare lo scudetto. La classifica dice: Juventus punti 41, Vicenza punti 37. Alla squadra di Trapattoni basta un punto, un pareggio, e potrà festeggiare. Prima di entrare in campo l’allenatore ha detto poche parole ai suoi ragazzi. Non hanno bisogno di indicazioni o suggerimenti: conoscono già tutto. E, in più, hanno la consapevolezza della loro forza. A pochi metri di distanza, nello stanzone dove si stanno preparando i giocatori della Roma, c’è più tensione. L’allenatore Gustavo Giagnoni spiega, si raccomanda, dà disposizione precise sulle marcature: non lascia nulla al caso perché quella è la penultima partita di campionato e la Roma non ha ancora raggiunto la salvezza matematica. La lotta è aperta e il rischio spaventa. Alle ore 16.32, quando Mario Moretti alza la cornetta per parlare con la signora Moro, i tifosi della Roma sono nel panico: la Juve sta vincendo 1-0, ha segnato Roberto Bettega nel primo tempo e tutto l’intervallo la gente lo trascorrerà pensando a che cosa succederà. La Juve mollerà la presa, si accontenterà? In fondo, un pareggino sta bene a tutt’e due...
Moretti ha appena chiuso la telefonata e sta camminando assieme ai suoi amici brigatisti sperando di non essere riconosciuto quando all’Olimpico scoppia un boato. Agostino Di Bartolomei ha segnato il gol del pareggio, un bel tiro di destro che non ha lasciato scampo a Zoff. È l’11’ del secondo tempo e da quel momento Roma e Juventus non si faranno più male: tireranno a campare fino al termine della partita. È la vittoria del compromesso: perché lottare se il risultato va bene a entrambe? Il pubblico invade il prato dell’Olimpico, quando l’arbitro Ciacci decreta la fine, i giocatori corrono verso gli spogliatoi per evitare l’assalto della folla, mentre Trapattoni si ferma a parlare con i giornalisti: è al suo secondo scudetto consecutivo. A poca distanza dallo stadio, in un appartamento nella zona di Monte Mario, si susseguono le telefonate. C’è grande agitazione: si sta decidendo (ammesso che non sia già stato deciso) il destino dell’uomo politico più rappresentativo d’Italia. Le Brigate Rosse chiedono l’intervento diretto del segretario della Democrazia Cristiana Benigno Zaccagnini, vogliono che la trattativa con lo Stato avvenga alla luce del sole. Ma lo Stato, dopo la strage di Via Fani, non può piegarsi. Anche Papa Paolo VI, il 22 aprile, ha pregato in ginocchio i brigatisti affinché rilascino Aldo Moro «senza condizioni». Ormai il tempo sta scadendo, restano pochi attimi, non c’è spazio per il dialogo.
Domenica 7 maggio la Juventus batte il Vicenza 3-2 al Comunale di Torino e si concede all’abbraccio dei tifosi. Per le strade della città i clacson delle auto danno il ritmo alla festa che si prolunga fino a notte. Nei ristoranti si stappano bottiglie di champagne e già si pensa all’avventura della Nazionale al Mondiale in Argentina che comincerà di lì a poco. Il calcio distrae. Ma due giorni dopo arriva una telefonata, l’ultima, a far piombare tutta l’Italia dentro il dramma. È martedì 9 maggio, ore 12.13, il brigatista Valerio Morucci comunica che il cadavere di Aldo Moro si trova nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, proprio a metà strada tra la sede della Democrazia Cristiana e quella del Partito Comunista. Dopo 55 giorni di prigionia la sentenza delle Brigate Rosse è stata eseguita. Comincia la lunga notte della Repubblica.