Le Scienze, 5 dicembre 2015
Più dati, meno povertà
Per fare soldi ci vogliono soldi: è questa l’idea emozionante e intuitiva alla base del microcredito, che si è affermato negli anni novanta come sistema per aiutare i poveri a uscire dalla miseria.
Poiché le banche non concedevano loro presiti tradizionali, piccole somme con rischi minori avrebbero invece permesso agli imprenditori di dare impulso a piccole attività. L’economista Muhammad Yunis e la Grameen Bank in Bangladesh hanno saputo sviluppare questa innovazione e nel 2006 il loro lavoro è stato premiato con il premio Nobel per la pace.
Il problema è che secondo prove recenti il microcredito, pur portando effettivamente alcuni vantaggi, in media non aumenta né il reddito né la spesa per l’alimentazione e la casa, indicatori essenziali del benessere finanziario.
Il fatto che un programma possa ricevere elogi per oltre vent’anni e denaro a pioggia, ma non riesca a far superare ai poveri la loro miseria, mette in evidenza la scarsità di prove nei programmi contro la povertà. Negli Stati Uniti, per esempio, i privati danno in beneficenza 335 miliardi di dollari l’anno, eppure molti elargiscono questo denaro in modo istintivo o basandosi sui consigli degli amici, non perché abbiano le prove che le loro donazioni saranno efficaci. Anche gli enti di beneficenza spesso sostengono dei progetti senza sapere davvero se hanno successo.
Per fortuna viviamo nell’epoca dei big data: le decisioni che una volta si prendevano intuitivamente oggi si possono basare su prove tangibili. Negli ultimi anni gli studiosi di scienze sociali hanno cominciato a usare i big data per porre domande difficili su che cosa funziona e che cosa no. L’obiettivo è trasformare la filantropia in una scienza in cui il denaro è indirizzato ai programmi che dimostrano concretamente la propria efficacia.
Ho scoperto i microcrediti nel 1992, in quella che sembrava una breve deviazione prima di una carriera negli hedge fund. A 22 anni, durante uno stage a El Salvador per uno dei maggiori enti di microcredito, rimasi colpito da quanto poco l’organizzazione conoscesse gli effetti sui clienti – in genere donne – e sull’economia locale. L’istituto sapeva che molti tornavano a chiedere altri prestiti e considerava il «mantenimento del cliente» la dimostrazione del proprio successo.
D’altronde, se i prestiti fossero stati inutili perché i clienti sarebbero tornati a chiederne? L’organizzazione però non aveva prove serie che i prestiti aiutassero le donne a far uscire dalla povertà la loro famiglia. Quando ho chiesto le prove del loro impatto, mi è stato indicato uno sbrigativo questionario. Ho pensato: forse la ripetuta richiesta di prestiti non è positiva se l’attività del cliente non continua a crescere. Forse il vero successo sarebbe concedere un solo prestito per aiutare chi è in difficoltà, e poi in futuro scoprire che ha raggiunto una tale stabilità da non averne più bisogno.
Invece quell’enorme organizzazione non governativa raccoglieva notevoli finanziamenti per aiutare i poveri senza misurare davvero se quell’impegno andava a buon fine. Le attività a scopo di lucro hanno parametri per sapere come stanno andando, ma gran parte dei donatori non è abituata a chiedere alle ONG un resoconto dei loro risultati. A volte chiedono quale percentuale del denaro raccolto è destinata alle spese di esercizio, ma spesso questo dato non significa molto. La domanda da porre ogni volta che una persona firma un assegno a un ente di beneficenza o un governo sostiene un progetto di sviluppo multimilionario è: funzionerà davvero per ridurre la povertà? In altre parole, come cambierà la vita delle persone rispetto a come sarebbe senza questo programma?
Questa domanda mi ha allontanato dalla carriera a Wall Street, portandomi a una specializzazione in economia. Uno dei miei docenti, Michael Kremer, aveva appena cominciato a condurre studi randomizzati controllati per scoprire quali programmi riescono a ridurre l’abbandono scolastico e a migliorare l’istruzione ricevuta dai ragazzi. Adottava un metodo mutuato dalla medicina e da altre scienze: divideva casualmente le scuole tra quelle che avrebbero ricevuto una certa risorsa (il gruppo di trattamento) e quelle che sarebbero andate avanti come prima (il gruppo di controllo), per poi confrontare i risultati scolastici di questi due gruppi.
Il suo metodo mi ha dato un’idea per tornare proprio a quelle questioni sul microcredito che mi avevano indirizzato al mondo accademico. Quando ho presentato le mie domande, descrivendo un semplice esperimento con cui si potevano affrontare, pensavo di proporre un progetto collaterale, non una tesi. Nei due anni precedenti avevo continuato a leggere articoli complicati, che spesso affrontavano le questioni empiriche con un’econometria elaborata, e davo per scontato che questo fosse l’approccio di una tesi. Ma ricordo ancora il commento di Kremer: fai una domanda importante e non chiederti se il tuo metodo è complicato e dimostra genialità. Preoccupati solo di rispondere bene alla domanda.
Quindi, nel quarto anno di specializzazione, andai in Sudafrica per avviare il mio primo esperimento sull’efficacia del microcredito. Addestrai un team perché cercasse le persone che volevano un prestito. Una volta selezionati i partecipanti, li ho assegnati a caso al gruppo di trattamento o a quello di controllo, dando la lista del primo gruppo al creditore, che quindi avrebbe contattato gli interessati per offrire loro un prestito.
Sembrava piuttosto facile, invece il progetto fallì miseramente. Ogni volta che gli indicavo dei nomi, il creditore impiegava mesi a trovare il potenziale cliente, sempre che ci riuscisse. Poi si portò via il miglior membro del mio team, ostacolandomi così nella ricerca di altri partecipanti al progetto.
Per gli accademici spesso è difficile eseguire studi in luoghi lontani con il livello di precisione necessario per buoni studi scientifici. Serve personale affidabile sul campo, che capisca la scienza ma abbia anche le capacità sociali per collaborare con i partner e gestire le operazioni in loco.
Nel 2002, mentre stavo cominciando la carriera da professore, ho fondato un’organizzazione no profit, chiamata Innovations for Poverty Action (IPA), per contribuire a colmare queste lacune nelle conoscenze su finanza, sanità, istruzione, alimentazione e questioni di pace e ripresa postbellica. L’IPA collega i miei curiosi colleghi accademici, che macinano numeri al Massachusetts Institute of Technology, alla Yale University e simili, con uno staff addestrato di oltre 500 persone, che lavorano in 18 paesi su studi randomizzati controllati. Abbiamo ormai effettuato più di 500 studi. Una scoperta fondamentale è che semplici interventi basati sul comportamento umano possono avere effetti enormi. Mettere distributori di cloro vicino alle fonti d’acqua, rendendoli facili da ricordare e visibili pubblicamente, sestuplica l’uso dell’acqua pulita.
In India, quando si invitano le famiglie a una vaccinazione mensile, aggiungere un semplice pacco di lenticchie aumenta di circa sei volte il tasso di piena immunizzazione nei bambini (e al tempo stesso rende più economico l’intero processo perché si presentano più famiglie). E solleciti tramite messaggi di testo, semplici ed economici, possono essere utili ad aiutare le persone a raggiungere i propri obiettivi, dal risparmio di denaro al rispetto di un regime farmacologico. Naturalmente, non tutto funziona. Dobbiamo capire che cosa funziona e che cosa no.
Inoltre abbiamo imparato che le informazioni non bastano a risolvere tutto. Solidi rapporti a livello locale con istituzioni, enti no profit, aziende e banche fanno sì che gli esperti accademici possano lavorare sulle questioni importanti, e che le risposte arrivino a chi le può usare.
Nel corso degli anni, i microcrediti sono diventati un chiodo fisso per me e i miei colleghi. A tutt’oggi, quindici anni dopo il mio primo tentativo in Sudafrica, abbiamo concluso sette studi randomizzati sui microcrediti tradizionali e uno sul credito al consumo, a sua volta in Sudafrica. I sette progetti, sparsi in tutto il mondo, sono stati condotti da ricercatori diversi con metodi simili, in Bosnia Erzegovina, Etiopia, India, Messico, Mongolia, Marocco e Filippine. Questi studi hanno rilevato alcuni effetti positivi dei microcrediti, per esempio aiutare le famiglie a superare periodi difficili, finire di pagare acquisti a rate e perfino fare piccoli investimenti in attività economiche. Ma in media non hanno influito sui principali indicatori del benessere finanziario, cioè il reddito e la spesa per l’alimentazione e la casa. Con dispiacere di chi critica i microcrediti, però, non sono emersi neanche grandi effetti negativi.
Allora, che cosa funziona davvero per aumentare il reddito dei più poveri al mondo?
Proprio di recente abbiamo studiato un altro programma che affronta alcuni difetti del microcredito. Un aspetto in cui purtroppo molti programmi (compresi quelli di microcredito) falliscono è nel non riuscire a raggiungere i più poveri tra i poveri, cioè chi vive nella cosiddetta povertà estrema o assoluta. Queste persone vivono con meno dell’equivalente di un euro al giorno e sono oltre un miliardo, cioè un settimo della popolazione mondiale. I fattori che le mantengono povere in genere sono così complicati che nessun singolo intervento può risolvere la situazione, ma sta destando interesse un programma gestito in Bangladesh e altri luoghi dalla BRAC, la più grande organizzazione no profit al mondo. Secondo questo programma, la povertà estrema è un problema complesso che merita una soluzione complessa. Il suo metodo «formativo», progettato per far superare la povertà estrema, offre un pacchetto di sei voci:
1. Un «bene produttivo», cioè qualcosa con cui guadagnarsi da vivere (bestiame, alveari per produrre il miele o merce con cui avviare un piccolo negozio).
2. Addestramento tecnico su come usare questo bene.
3. Un piccolo salario regolare per un breve periodo, con cui far fronte alle necessità della vita quotidiana in modo che il beneficiario non debba vendere il bene mentre impara a usarlo.
4. Accesso all’assistenza sanitaria, per restare in salute abbastanza da poter lavorare.
5. Un modo di risparmiare denaro per il futuro.
6. Visite regolari (in genere settimanali) di un istruttore, per migliorare le capacità, acquisire sicurezza e aiutare i partecipanti ad affrontare ogni problema che si possa presentare.
A Washington, la Ford Foundation and Consultative Group to Assist the Poor si è rivolta a me con un’idea ambiziosa: testare un programma identico, realizzato in più luoghi da organizzazioni diverse. Alla fine abbiamo condotto studi simili in sei paesi: Etiopia, Ghana, Honduras, India, Pakistan e Perù. E abbiamo osservato un risultato senza precedenti: dove funzionava, il programma dava buoni risultati. Quando siamo tornati, un anno dopo il termine del programma, abbiamo scoperto che aveva avuto un impatto durevole: la gente aveva più da mangiare e soldi da spendere. Una volta calcolati i costi (manodopera, costi dei beni, trasporti e spese di esercizio) e confrontati con i benefici, il rendimento complessivo si è dimostrato positivo in cinque paesi su sei: dal 133 per cento in Ghana al 433 per cento in India. In altre parole, ogni dollaro investito in India ha prodotto altri 4,33 dollari di spesa alimentare e di altro tipo per le famiglie estremamente povere.
L’unica eccezione è stata l’Honduras, dove il bene produttivo più usato dalle organizzazioni locali – i polli – era di una razza straniera, non resistente alle malattie locali, che quindi si ammalava e moriva. Dal punto di vista umanitario è stato un fallimento, ma ha dimostrato che il bene è un componente essenziale del programma. Tolto questo componente, gli altri cinque non producevano da sé un impatto positivo. Man mano che i programmi si ampliano in Etiopia, India e Pakistan, speriamo di scoprire altro su come si possa far funzionare meglio questo programma, riducendo i costi o migliorando i servizi.
Non esiste una panacea nella lotta alla povertà. Anche un programma formativo per chi vive in povertà estrema, che sia pronto a svilupparsi e dia un ritorno eccellente su ogni dollaro speso in beneficenza, non trasformerà le persone estremamente povere in borghesi in grado di comprare un’auto. L’obiettivo dichiarato di Innovations for Poverty Action è giustamente modesto: più prove, meno povertà. Non cancelleremo la povertà, ma con le prove giuste possiamo fare progressi importanti.