IoDonna, 5 dicembre 2015
«Si emigra una volta sola». Conversazione con Giuseppe Tornatore
Le pareti dell’ufficio di Giuseppe Tornatore sono un libro aperto. Ci sono i poster dei suoi film (Nuovo cinema Paradiso in coreano), ricordi dei set (il cartello ferroviario Palermo centrale-Baaria), ma il posto d’onore è riservato ai maestri: La terra trema di Visconti, foto di Fellini, Sergio Leone, Robert De Niro, più giù Buster Keaton, Pasolini e, protagonista assoluto, un proiettore gigantesco che potrebbe avere l’età del cinema. In fondo a un corridoio che espone più pezzi di una sala del Louvre, c’è la stanza dove si stanno dando gli ultimi ritocchi a La corrispondenza. È l’inizio del film – che Io donna vede in esclusiva – e i due protagonisti, Jeremy Irons e Olga Kurylenko, si baciano con una passione che avrebbe fatto inorridire il parroco di Bagheria, il censore degli amori di Nuovo cinema Paradiso dalle forbici facili.
Jeremy Irons e Olga Kurylenko in una scena di “La corrispondenza”. Il film sarà nei cinema il 14 gennaio.
Sono in una stanza d’albergo, alle sei del mattino e prima di un congedo che pare definitivo (ma lei lo sa?) parlano di misteri che muovono le loro vite, di possibili non detti. Altra scena: Kurylenko infila nel drive del computer il dvd che ha appena ricevuto per posta: c’è Jeremy Irons che le ricorda – è un professore di astrofisica – di quando le aveva parlato per la prima volta del concetto di infinito, di cosa prova un’anima sperduta quando, tra tanti corpi, deve scegliere quello in cui reincarnarsi. Sembrano molte le corrispondenze in questo film di cui il regista e sceneggiatore confessa di aver lasciato che circolassero «sinossi non proprio rispondenti al vero, o per lo meno vere solo in parte, per proteggerlo. Sa, una volta un film che avrei dovuto fare e di cui era circolata una sinossi è stato recensito da un critico. Gli ha dato pure le stellette, ma il film non è mai esistito…».
Corrispondenze dunque, nel senso tradizionale del termine, «lettere, comunicazioni digitali di ogni tipo, ma anche “corrispondenze d’amorosi sensi”» per dirla con Foscolo. E forse il riferimento non è del tutto peregrino: Kurylenko nel film è una stunt, una di quelle figure chiave dei film di azione, perché cadono, si feriscono e muoiono al posto delle prime attrici. «C’è un trauma nel suo passato», racconta Tornatore. «Quando sul set qualcuno le chiede: “Tra due mesi ci sarebbe da girare uno squartamento, ti va?”, la risposta è: “Quando c’è da rimetterci la pelle lei è felice».
Più che i Sepolcri, sembra Freud…
In realtà è una storia d’amore dei nostri tempi. E l’amore spesso salva.
Ken Loach confessa che, pur bravo a far la politica al cinema, è terribilmente imbarazzato dalle scene d’amore. Non è facile raccontarlo.
È la cosa più difficile, la si dà per scontato perché se ne sono viste tante di storie d’amore, ma è perché l’amore in sé è il mistero dei misteri, da Platone a Galimberti, tutti hanno cercato di capirlo...
Gli americani se la cavano con le sottocategorie. Per quella tra i suoi due personaggi direbbero che è una storia d’amore maggio-settembre per la differenza d’età…
(ride) È proprio un maggio-settembre. Ma Jeremy Irons è splendido, erano tutte rapite da lui, donne giovani, mature, quando giravamo.
Lei ha fatto film molto dichiaratamente autobiografici, ma in quelli che non lo sembrano, come questo, riconosce quanto c’è di suo?
Me lo chiedo spesso e talvolta, quando un film è finito, mi sembra di intuire che – attraverso vie misteriose – molto di quello che ho vissuto si è trasformato, si è insinuato. Cose che non vorrei spiattellare sullo schermo, ma a dispetto di questa mia ritrosia poi ci finiscono, senza nemmeno che io me ne accorga. Per fortuna nessuno, quasi nessuno, si accorgerà che quella cosa parla di nervi tuoi, sangue tuo.
Nella Corrispondenza non c’è nemmeno un granello di polvere siciliano.
Dopo Baaria sentivo di aver chiuso quel capitolo, ho deciso di assecondare un istinto che ho sempre avuto: muovermi. Non mi piace l’idea di stare sempre nello stesso posto, avere sempre lo stesso orizzonte. Forse i miei impulsi autobiografici avevano tenuto a bada questa energia centrifuga, ma adesso si è liberata. La corrispondenza è fatto di atmosfere nordiche, si svolge in Inghilterra.
Anche se la Sicilia l’ha raccontata in molti modi, alla fine decidere di allontanarsene è stato doloroso?
Al contrario, è liberatorio. Chi ha la fortuna – o la disgrazia – di avere un legame forte col posto dove si è nati, come accade a me, sa che raccontarlo o illudersi di averlo raccontato, ti rafforza. Io ora mi sento più forte. E questo mi permette di andare per il mondo. Per me lasciare la Sicilia fu, all’epoca, un’esperienza traumatica. Avevo sempre sognato di andare via. Proprio il fatto di aver incubato a lungo questo progetto l’ha resa un’esperienza più importante di quanto non fosse veramente. Spostarsi a 10 ore di treno non dovrebbe essere una tragedia, ma per il tipo di educazione ricevuta, mi sentivo come se dovessi andare oltre le colonne d’Ercole.
Le sembrava un tradimento?
Ci sono stati sensi di colpa. Ma il narrare mi ha portato a disinnescare quella sensazione di aver vissuto chissà qualche esperienza sovrumana. Adesso se mi viene in mente una storia che si svolge sulla Luna, non mi dico: «Oddio, la Luna quanto dista dalla Sicilia? Ce la farò?». I primi tempi dopo il trasferimento a Roma ricordo che dovevo tornare a casa tutti i mesi, poi hanno cominciato a diventare due, tre, cinque, fino all’affrancamento…
Portandosi però sempre dentro le eredità della terra, della famiglia, la passione politica rappresentata da suo padre, la bellezza di sua madre…
Anche se non faccio azioni che siano loro direttamente ricollegabili, queste cose sono con me. Anche quando non faccio un film esplicitamente di impegno politico, i valori di mio padre li porto comunque con me. Ammesso poi che si possa fare un film che non sia politico.
Lei riesce sempre ad aggiudicarsi protagonisti incredibili: Polanski, Mastroianni, Noiret, Depardieu… Ora Jeremy Irons.
Forse la deluderò, ma si attribuiscono a questi mostri sacri delle complessità incredibili. In realtà è l’opposto, tanto più un artista è grande tanto più è facile il rapporto. Certo, se un attore ha fatto 120 film e tu sei al tuo terzo, ti tremano i polsi. Con Marcello potevi preoccuparti prima di incontrarlo – io poi ero un ragazzo – ma da quando ci siamo stretti la mano ho avuto l’impressione di avere a che fare con una persona che conoscevo da sempre. Era davvero una figura familiare. I suoi film mi avevano nutrito, mi avevano insegnato le cose della vita.
A proposito di amicizie durevoli, appese al muro dietro di lei ci sono partiture musicali incorniciate. Sono di Ennio Morricone?
Sì, perché ogni tanto mentre parliamo lui butta giù delle note e poi me le regala.
Francesco Rosi nel libro intervista che avete scritto insieme, raccontava che il suo inizio, o forse la sua iniziazione, era rappresentata dalla foto che suo padre gli aveva scattato in cui assomigliava a Jackie Coogan, il Monello di Chaplin. Il suo inizio è stato in cabina di proiezione?
Il mio inizio è raccontato esattamente in una sequenza che ho ricostruito in Baaria, proprio come me lo ricordo. Avrò avuto sei anni e mio padre mi portò al cinema. Entrammo in questo luogo buio, io non sapevo cosa fosse, lì per lì mi sono spaventato, all’epoca si entrava al cinema in qualunque momento. Si aprì questa tenda pesante e poi vidi sullo schermo delle immagini in bianco e nero, due uomini giganteschi che combattevano, uno dei due aveva un arpione. Il film era Uno sguardo dal ponte di Sidney Lumet (il poster campeggia sul pianerottolo dell’ufficio, ndr). Quando si accesero le luci, quei due uomini giganteschi erano spariti e io mi chiedevo – grandi com’erano – dove si fossero cacciati. Quello è stato il momento in cui ho cominciato a interrogarmi su come si facesse a produrre quelle immagini. Poi ronzando intorno al cinema e a quelli che ci lavoravano piano piano capii tante cose, a 9 anni misi piede per la prima volta in una cabina di proiezione, a 13 anni ho fatto la mia prima giornata di lavoro. Proiettai una copia vecchia e rovinatissima di Un dollaro d’onore con John Wayne e Dean Martin. Più di 45 anni fa… Mi fa impressione.
Ha imparato molto da allora?
Non credo che col tempo si imparino più cose, si mette solo a fuoco ciò che non si è capito si sé.
La genesi di La corrispondenza è antica come La migliore offerta che risale all’84?
Questa è un’idea di 15, 16 anni fa, il primo seme almeno. È sempre così quando un’idea è buona, sta lì per un po’ poi ritorna arricchita di nuovi elementi, oppure sparisce nel nulla. Se l’incubazione è lunga, quando ti metti a scrivere la sensazione è che stai solo trascrivendo quello che è già tutto dentro di te e devi semplicemente organizzare quella materia. Tutti i miei film hanno avuto incubazioni di anni, 10 per Nuovo Cinema Paradiso…
Anche Woody Allen ha un cassetto pieno di “pizzini”, ognuno è un’idea…
Gabriel Garcia Marquez quando uscì Nuovo Cinema Paradiso mi mandò un fax. C’era scritto: «Questo è il film che avrei voluto fare se fossi riuscito a diventare regista come avevo sognato da ragazzo» e aggiungeva: «A casa mia si cucinano dei buoni spaghetti al pomodoro. Se ti va, passami a trovare». E io ci andai: sono rimasto una settimana a Città del Messico. Ci vedevamo tutti i giorni per due o tre ore a chiacchierare. Finché mi disse: «Quando ti viene un’idea non scrivere niente, stai alla larga dalla pagina. Più tempo impieghi a pensare una storia, più facile ti sarà poi scriverla. Meno tempo gli concedi più soffrirai».È l’approccio più onesto coi nostri fantasmi. Che in fondo ci chiedono solo di trovare loro un ordine.
Quanti “pizzini” ha nel cassetto?
Tanti. Scrivo tutto, una frase che sento per strada, qualcuno che fa una cosa che mi colpisce. Alcuni mesi fa vedo arrivare un taxi, scende un signore, paga, il taxi va via. Quel signore attraversa la strada, ferma un altro taxi e riparte. Perché l’ha fatto? È finito nel cassetto…
I suoi film sono sempre molto internazionali, non ha mai avuto la tentazione di andarsene, fare la scelta drastica come Gabriele Muccino?
Mai. Non credo che riuscirei a “diventare americano”, ma potrei trasferirmi lì per il tempo necessario a fare un film. Solo una volta ho sentito il bisogno di lasciare casa mia per andare a vivere in un altro luogo, ed era perché dove ero nato il cinema non si faceva. Ma forse la mia è solo paura di partire, andarmene, in cerca di un nuovo altrove.
Mi ricordo che il mio maestro di fotografia decise di emigrare in America a cercare fortuna, regalò tutti i suoi materiali, le bacinelle, un flash, perché doveva essere per sempre. Otto mesi dopo ritornò, scocciato dalla vita americana. Molti gli restituirono le cose, anche se lui non chiese niente. Ecco, non vorrei dar via i miei elettrodomestici per nulla…È come se la mia Bagheria di allora fosse oggi l’Italia. O forse semplicemente si emigra una volta sola.