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 2015  dicembre 07 Lunedì calendario

In principio fu Bouazizi, un ambulante che si diede fuoco. A cinque anni dalla primavera araba, da quel 17 dicembre che diede il via a una guerra che è ancora in atto

Tra poco sono 5 anni. La cosiddetta primavera araba, la scossa tellurica che in modi diversi e contraddittori ha coinvolto così tanti paesi, è nata da un episodio del 17 dicembre in una cittadina del Centro Sud della Tunisia. Un episodio drammatico che poteva anche restare del tutto marginale e dimenticato ma che ha fatto da scintilla a due rivolte che covavano : quella sociale e generazionale, quella democratico-liberale.
Mohamed Bouazizi aveva quasi 27 anni quando si è dato fuoco a Sidi Bouzid, malandata cittadina della Tunisia rurale.
La mattina del 17 dicembre Mohamed era in piazza come tutti gli altri giorni. Costretto dagli eventi, da qualche tempo si era messo a fare l’ambulante (“abusivo” senza licenza): vendeva frutta e verdura girando per la città con il suo carretto. Eppure aveva studiato fino alla quarta superiore. Poi la morte del padre e la necessità di abbandonare il liceo per mantenere la famiglia: 7 fratelli più la madre, tutti stretti in un trilocale senza letti.
All’inizio Mohamed lavorava nei campi, coltivava olive e mandorle su un piccolo terreno acquistato dalla famiglia. Ma quando anche quell’unico bene è sparito, sequestrato dalla banca perché la famiglia Bouazizi non aveva i soldi per pagare in tempo le rate, al giovane non sono rimaste altre possibilità.
 
Gli studi, la crisi e la rabbia
Quel 17 dicembre Mohamed viene avvicinato da tre poliziotti, due uomini e una donna. Vogliono qualche dinaro per non creargli problemi. È una pratica abituale in Tunisia, tutti gli ambulanti lo sanno. Ma Mohamed questa volta dice no. Gli agenti si arrabbiano. Si discuterà poi se davvero la donna-poliziotto gli ha tirato uno schiaffo, se davvero hanno insultato il padre morto. Di certo gli sequestrano merce e carretto. Il giovane va al palazzo del “Gouvernorat”, cerca invano di farsi ricevere per farsi restituire le sue cose. Umiliato, Mohammed si allontana dalla piazza, va a prendere una tanica di benzina e si ferma davanti alla sede del governo regionale. Grida: “Come credi che io possa guadagnarmi da vivere?” e si dà fuoco. Le proteste a Sidi Bouzid iniziano subito. È una identificazione in Bouazizi, la condizione sociale, la prepotenza della polizia. Dilagano nei centri vicini. La polizia talvolta spara, fa vittime. Dieci giorni dopo parte la prima protesta “borghese” a Tunisi : gli avvocati in toga partono in corteo dal Palazzo di Giustizia, per i diritti umani, contro le prepotenze della polizia.
Il dittatore (pardon, il presidente eletto ininterrottamente dal 1987) Ben Ali cerca di isolare il caso di Bouazizi dai “facinorosi”: fa arrestare la poliziotta che lo avrebbe schiaffeggiato, va a trovare il giovane ormai in fase terminale all’ospedale di Ben Arous. I passi indietro, le concessioni di Ben Ali non servono più a niente. Il movimento dilaga con la parola d’ordine esplicita e liberatoria, “Degage”, in francese, “vattene”, rivolto al dittatore. Mohamed Bouazizi, che muore il 4 gennaio, non era un attivista, come erroneamente dice la voce in italiano di Wikipedia. Ma il suo gesto – dice Stefano Vergine che con Raffaele Masto e Habib Omri ha pubblicato La rabbia e la speranza – è stato “un suicidio laico, una richiesta di giustizia sociale che non ha ancora trovato risposta”. La giornata chiave è quella del 14 gennaio 2011, cominciata con lo sciopero proclamato dalla Ugtt e con la gente che si unisce a manifestare in piazza e conclusa con la fuga di Ben Ali verso l’esilio in Arabia saudita.
 
L’esercito e il Nobel alla società civile
La rivoluzione tunisina, come è stata subito chiamata, non ha leaders nè bandiere (a parte quella nazionale). Ha un grande complice nell’esercito tunisino, che si rifiuta di difendere il regime in crisi. Un ruolo fondamentale di neutralità, che è servito anche nella crisi del 2013, quando qualcuno avrebbe voluto anche in Tunisia un golpe alla egiziana, ovvero uno spodestamento degli islamisti allora al governo. Nell’ottobre del 2011, infatti, le elezioni sono state vinte dal partito islamista Ennahda, col 37%. Ricordo come sorridevano bonari per rassicurare l’Europa sulle loro intenzioni democratiche. Ma dopo due anni l’animo mediterraneo, borghese e giovanile della Tunisia se li voleva scrollare di dosso, anche se nelle banlieues, come del resto persino in Francia e Belgio, ardeva qualche più o meno inedito fuoco integralista. Il premio Nobel per la Pace di quest’anno è stato assegnato al cosiddetto “quartetto” della società civile tunisina per il ruolo che hanno avuto nella crisi politica tra il 2013 e il 2014. Le organizzazioni sono il sindacato generale tunisino (Ugtt, Union Générale Tunisienne du Travail), la confederazione industriale e del commercio (Utica, Union Tunisienne de l’Industrie, du Commerce et de l’Artisanat), lega dei diritti umani (Ltdh, La Ligue Tunisienne pour la Défense des Droits de l’Homme), e l’ordine degli avvocati (Ordre National des Avocats de Tunisie). Sono riusciti con il loro tavolo negoziale ad accompagnare alle dimissioni il governo a guida islamista, a fare nascere un governo “tecnico” e a far concludere il varo della Costituzione fino alle elezioni.
Oggi la pace interna è minacciata da attentati terroristici, anche se come in Europa, solo attraverso attentatori-suicidi. C’è chi ha paragonato il kamikaze autore della strage di guardie presidenziali del 24 novembre a Mohamed Bouazizi: anche lui, Houssem Abdelli, poco meno che 27 enne, disoccupato e venditore ambulante.
Ma la stragrande maggioranza della gioventù tunisina sta dall’altra arte, cerca lavoro e libertà. La strada è incerta, ma il sogno c’è ancora. Isis e dintorni non hanno radicamento. La strada è incerta, ma il sogno della “primavera” in Tunisia c’è ancora.