il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2015
Con l’Imam nella moschea di al-Rahman, a Segrate
Di sera, la piccola ma graziosa moschea al-Rahman (il Misericordioso, uno degli attributi di Allah) è fiocamente illuminata dalle insegne della stazione di benzina Tamoil che le sta di fianco, all’ingresso di Segrate. Di là della rotonda, anche se non svetta troppo (venticinque metri), il minareto della moschea al-Rahman, simbolo di un’attualità inquieta e drammatica, torre sottile di un Islam che ha condannato le stragi in nome di Allah: “Fratelli e sorelle non abbiate paura di combattere uniti il terrorismo, facciamo vedere quali sono i nostri valori”, è stato l’appello di Ali Abu Shwaima, l’imam di origine giordana della moschea di Segrate, per indicare una scelta precisa.
Da qui, in un minuto, si arriva a Milano Due, la cittadella costruita da Berlusconi. Quando succede qualcosa che coinvolge i musulmani, dagli studi di Milano Due parte subito una troupe Mediaset. Come l’altro giorno, per raccogliere pareri sull’iniziativa leghista in Regione Lombardia contro il velo, il burqa o il niqab. “Mi hanno mostrato la foto di una fotomodella marocchina e mi hanno chiesto che cosa ne pensavo”, mi confida un fedele, mentre lascia la moschea, “ho risposto che non avevo nulla da dire, chi sono io per emettere un giudizio?”. Di solito, a esprimere giudizi ponderati e guidare le comunità musulmane a rispettare i principii dell’Islam ci pensano gli imam, i dotti, i sapienti, coloro che hanno studiato e approfondito la teologia, la giurisprudenza islamica, le scienze religiose: “Ci vogliono anni di sacrifici scolastici, di insegnamento, di pubblicazioni, di discussioni per diventare dottori in Legge ed esperti nel rito”, spiega l’imam Aboulkheir Breigheche, un medico siriano che ha lasciato Damasco nel 1966 e vive a Trento, “è importante aver frequentato l’università islamica. Che in Italia ancora non c’è”. Più uno perfeziona gli studi islamici, più diventa autorevole, in un Islam dove è assente un capo unico, come il Papa.
Breigheche presiede il Consiglio dei Garanti dell’Associazione islamica italiana degli Imam e delle Guide Spirituali, essendone stato uno dei fondatori: al momento sono un centinaio gli imam che vi aderiscono, un numero tutto sommato esiguo se si pensa che i fedeli del Corano in Italia sono un milione e 700mila (un milione circa in Lombardia) e che i luoghi di culto, diffusi in tutta la Penisola, sono 700, di cui 695 informali, mentre sono appena cinque le moschee riconosciute come tali, “siamo la seconda comunità religiosa d’Italia”, sottolinea il dottor Breigheche, “certo, non abbiamo la storia delle comunità musulmane di Francia e Gran Bretagna, però cominciamo a essere presenti e visibili, siamo in gran parte cittadini italiani o residenti regolari”. Ma in Italia manca un’intesa tra lo Stato e la comunità musulmana e questo è un elemento che contraddice l’articolo 19 della Costituzione (“Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto).
È in questo contesto non sempre agevole – secondo un recente sondaggio del Pew Research Center, un think thank con sede a Washington che elabora studi su problematiche sociali e demografiche, il 63% degli italiani è islamofobo, più di ogni altro popolo europeo – che si deve muovere, con tatto, prudenza, diplomazia ogni imam d’Italia che abbia a cuore la propria comunità: “L’organizzazione religiosa islamica è più orizzontale che verticale. In Italia, la maggioranza dei musulmani è sunnita. All’interno dei sunniti, esistono differenze che rientrano nel cerchio che si chiama Islam, dove vi è la possibilità di dare risposte diverse a una stessa domanda. Le differenze sono in base alle scuole.
Che spesso coincidono coi paesi d’origine”. In Italia, per esempio, sono 250 le moschee di tradizione malikita, che rispettano l’islam moderato, raggruppate nella Confederazione islamica italiana, una realtà prevalentemente marocchina. Ci sono moschee e associazioni considerate più radicali (aveva questa fama l’istituto culturale di viale Jenner, a Milano). O il centro islamico al Huda di Centocelle, più volte indicato come luogo a rischio di infiltrazioni terroristiche e il suo imam, Mohamed Ben Mohamed, aveva assunto posizioni controverse, come quando difese il nijab, il velo integrale.
Dice Breigheche: “Ogni moschea decide per sé. È la comunità che sceglie in maniera spontanea chi debba guidarla. Il criterio della scelta si basa sulle capacità teologiche e dialettiche, sul modo di affrontare le situazioni della quotidianità. Sul rapporto con la società, col mondo del lavoro, con le istituzioni e sull’aiuto e i consigli che sa dare a chi ha bisogno”. I compiti dell’imam (ci sono quelli volontari e quelli retribuiti, dipende dalle situazioni) sono lineari: prima di tutto, dirigere i fedeli durante le cinque rituali preghiere quotidiane. Il venerdì, il giorno in cui i musulmani partecipano in moschea per recitare le preghiere pubbliche – obbligatorio per gli uomini, consigliato “fortemente” per le donne – è anche il momento più importante perché è l’occasione in cui l’imam pronuncia il sermone, prima nella lingua del Corano, cioè l’arabo, poi in italiano.
D’altra parte, non tutti i musulmani che vivono in Italia capiscono l’arabo: come gli indonesiani, i malesi, molti africani. Un impegno di responsabilità che piglia forma e contenuto durante la settimana, negli incontri di catechesi coi fedeli, nell’analisi degli eventi, anche politici: “Per esempio, dopo i fatti di Parigi, ogni imam si è subito preoccupato di spiegare cosa dice l’islam a proposito del fondamentalismo e del terrorismo, e di condannarli per non lasciare alle persone fai-da-te di emettere opinioni inaccettabili”.
Molti musulmani, scrisse anni fa Sergio Noja Noseda, professore di Lingua e Letteratura Araba dell’Università Cattolica di Milano, uno dei più grandi arabisti europei, scomparso nel 2008, “si nominano imam da soli e la costante ignoranza in materia, sia dei nostri immigrati, sia dei politici ed amministratori italiani, fa sì che siano presi in considerazione quali autorità religiose (…). Questi imam rappresentano solo se stessi e trattare con loro è trattare con il vuoto”. Proprio per evitarlo, l’Associazione islamica italiana degli Imam e delle Guide Spirituali ha intenzione di creare una struttura specifica (due mesi fa è stato firmato il rogito per l’acquisto di un edificio nel Veronese), dedicata all’insegnamento e a seminari di studio, con gli stessi programmi e corsi della facoltà di Studi Islamici di Saint-Denis, a Parigi, in cui sono previsti corsi di specializzazione per imam e per quei musulmani che intendono migliorare la preparazione teologica e giuridica: “La speranza è di formare i presupposti per una facoltà islamica inserita nelle istituzioni universitarie italiane”. È dal 2006 che in varie città italiane si svolgono corsi di aggiornamento e ricerca, diciamo così, professionali. Sinora, tutti o quasi gli imam che operano in Italia hanno studiato nelle università coraniche straniere, a cominciare dalla prestigiosa al Azhar del Cairo, considerata la numero uno dell’islam sunnita.
E tuttavia si può essere imam anche senza avere il titolo accademico: ciò che conta è l’accertata qualità teologica, il riconoscimento di una “formazione superiore” e della saggezza, la capacità di insegnare ad alto livello la religione e i vari argomenti ad essa connessi. Lo stesso Breigheche non è laureato in teologia, ma ha frequentato i corsi di Chateau-Chinon, ed è considerato una preziosa guida morale. A garantire l’ortodossia e una certa uniformità dell’islam praticato e celebrato, sopra gli imam, nel Vecchio Continente, è posto il Consiglio Europeo per la Fatwa (il parere consultivo, ndr.) e la Ricerca. È composto da quaranta ulemah (dotti musulmani di scienze religiose) e ha sede a Dublino.
Si riunisce ogni sei mesi e sono loro che emettono vere e proprie fatwa. Uno dei 40 è Amin Hazmi, l’imam della moschea di Brescia, e questo è motivo d’orgoglio per la comunità musulmana tricolore. È certo che il prossimo consiglio affronterà il delirio estremista. E che sarà redatta una fatwa contro chi infanga l’Islam e lo espone alla diffidenza e al sospetto. “Basta con chi uccide nel nome di Allah”, ha gridato in piazza Izzedin Elzir, leader dell’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche d’Italia, “l’attacco a Parigi è il simbolo di un fallimento. Non solo del mondo musulmano, ma di tutti noi”. Su Facebook è stato postato, poche ore dopo il massacro del venerdì 13 novembre, l’indignato comunicato dell’associazione degli imam che condanna aspramente “i gravissimi accadimenti criminali terroristici”. In uno dei commenti, a firma Paolo Mattioli, si legge: “Manca però un codicillo: segnaleremo prontamente alle autorità europee ogni soggetto della nostra comunità che appoggi apertamente l’Isis e il fondamentalismo islamico”.
“Dobbiamo essere vigili e non permettere che si abusi dei centri islamici e delle moschee – conviene l’imam Breigheche – naturalmente, in base a prove certe, non staremo zitti e agiremo concretamente con le forze dell’ordine. E comunque, ormai, i terroristi e i loro fiancheggiatori sanno che nelle moschee verrebbero individuati”. Sottinteso: e denunciati.