Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  dicembre 07 Lunedì calendario

Se Zuckerberg fosse nato e vissuto in Italia non avrebbe potuto donare il 99% delle sue azioni Facebook come ha fatto

Mister Zuckerberg può donare, il signor Zuckerberg no. Se l’inventore di Facebook fosse un nostro connazionale e vivesse in Italia, la nostra legge, dettando l’inderogabile norma della quota “di legittima” in caso di successioni, gli impedirebbe di allestire lo schema giuridico con il quale intende elargire alla collettività il 99% delle sue azioni, qualcosa come 45 miliardi di dollari.
Per gli Stati Uniti questi gesti non sono una novità. Molti altri miliardari americani hanno compiuto scelte analoghe e alcuni (come Allen, Bloomberg, Branson, Buffet, Gates, Hilton) aderiscono al super-esclusivo club del quale possono far parte solo coloro che promettono di elargire la maggior parte dei loro averi, come si legge su www.givingpledge.org.
Anche Zuckerberg ha deciso di donare per iniziative benefiche un’enorme quota del suo patrimonio, e cioè il 99% del pacchetto azionario da lui posseduto in Facebook Inc. (nessuno però si preoccupi: con il solo 1% delle sue azioni di Facebook e ipotizzando irrealisticamente che non abbia altre risorse, la famiglia Zuckerberg non vivrà comunque di stenti, poiché quell’1% vale, soldo più soldo meno, circa 450 milioni di dollari).
Negli Usa si fa dunque a gara a chi dona di più: è la terra dove è possibile che ogni sogno si realizzi, e là è normale pensare che i figli non debbano partire “già arrivati” ma debbano conquistarsi il successo ad armi pari con gli altri coetanei; e che chi ha avuto fortuna lo deve anche alla collettività nella quale si sono determinate le condizioni idonee per accumularla. Per questo è normale che le imposte di successione siano elevatissime e che il sistema sospinga chi vuole effettuare donazioni.
In Italia, invece, la legge sancisce che se una persona fisica attribuisce l’intero proprio patrimonio (o una gran parte di esso) a una fondazione e poi muore lasciando coniuge e figli (o altri discendenti) costoro, per conseguire la “legittima”, hanno diritto alla riduzione degli apporti che il fondatore ha disposto a favore della fondazione. Le stesse conseguenze si hanno se un patrimonio è elargito mediante donazioni.
Infatti, ai sensi dell’articolo 556 del Codice civile, quando muore il fondatore o il donante, per determinare l’ammontare della quota del suo patrimonio di cui egli poteva liberamente disporre (con attribuzioni gratuite) senza violare le quote di legittima:
si deve calcolare il valore di tutti i beni che appartenevano al defunto al tempo della morte;
si deve sommare a tale valore quello dei beni di cui il fondatore abbia gratuitamente disposto durante la propria vita (ad esempio con donazioni oppure appunto apportandoli a una fondazione).
Sul risultato che si ottiene si calcola quindi la quota “disponibile” (e cioè la parte di patrimonio di cui il defunto poteva liberamente disporre) e la quota “riservata” (o “legittima”): vale a dire quella parte di patrimonio che il defunto necessariamente avrebbe dovuto destinare ai suoi stretti congiunti: un terzo al coniuge e un terzo all’unico figlio (residuando un terzo di “disponibile”) oppure, nel caso di due figli, un quarto a ciascuno di essi e un quarto al coniuge rimasto vedovo (residuando un quarto di “disponibile”).
Ad esempio, se il defunto muore essendo titolare di un patrimonio di valore 10, ha donato un valore di 150 durante la sua vita e gli rimangono superstiti la moglie e due figli, la quota disponibile è 40 (1/4 di 10 + 150) e pure di valore 40 è la quota riservata al coniuge superstite e a ciascuno dei due figli. Se dunque quei 150 avessero costituito l’apporto a una fondazione, il coniuge e i due figli potrebbero rivolgersi a essa, alla morte del fondatore, per ottenere la restituzione di 110 (lasciando solo 40 alla fondazione).
Va inoltre sottolineato che, nel nostro ordinamento, vige il divieto dei cosiddetti «patti successori»: ad esempio, sarebbe nullo l’accordo tra il miliardario e i suoi futuri eredi avente a oggetto, a esempio, il consenso che questi ultimi esprimessero alle operazioni filantropiche del benefattore in questione. In sostanza, questi futuri eredi non perderebbero, nonostante abbiano firmato quell’accordo, il diritto di impugnare le donazioni per vedersi attribuita la propria quota di legittima.
Come fare a emulare Mr. Facebook se si è persone fisiche soggette al diritto italiano (la legge italiana si applica a chi è domiciliato in Italia, a prescindere dalla sua cittadinanza, italiana o straniera)? A parte invocare un cambiamento della legislazione in materia, l’intento è abbastanza irrealizzabile (stante l’imperatività della normativa descritta), a meno di prendere spunto da quel che proprio Zuckerberg ha messo in opera, e cioè non disponendo il suo patrimonio a favore di una charity (vale a dire l’equivalente di una nostra fondazione, come, ad esempio, ha fatto Bill Gates istituendo la Bill & Melinda Gates Foundation) ma a favore di una Llc (limited liability company), e cioè di una “ordinaria” società commerciale (la quale, peraltro, negli Stati Uniti può anche non avere scopo di lucro), che, se volessimo tradurre il fenomeno in concetti di diritto italiano, si potrebbe rappresentare come una Srl i cui redditi siano però imputati direttamente ai soci (come nelle società di persone di diritto italiano).
Attribuire denaro in Italia a una società non costa nulla (si paga solo un’imposta di registro fissa di 250 euro) e le operazioni che questa società, forte dell’apporto patrimoniale ricevuto, ponga in essere a carattere filantropico, benefico, culturale eccetera, dovrebbero non essere contestabili dagli eredi di colui che ha conferito il danaro, una volta che questi sia deceduto. Si tratta comunque di uno scenario estremo, perché nel nostro ordinamento l’attività delle società (e dei loro amministratori) deve essere preordinata allo svolgimento di un’attività economica finalizzata alla produzione e alla distribuzione di utili. Il che evidentemente confligge in modo abbastanza inevitabile con lo scopo di beneficienza e con le erogazioni a fondo perduto. Non si sa mai però che lo scenario cambi con l’introduzione (che pare prossima: si veda «Il Sole 24 Ore» del 26 novembre 2015) nel nostro ordinamento delle cosiddette “società-benefit”, le quali potranno cumulare l’attività lucrativa con iniziative non-profit.
La situazione sarebbe senz’altro molto più agevole se fosse invece ipotizzabile un cambiamento di legislazione. Non sarebbe difficile infatti immaginare uno scenario normativo che, senza annullare la quota di legittima, la riduca però, più o meno drasticamente, qualora le erogazioni fatte in vita dal defunto fossero particolarmente qualificate, ad esempio perché preordinate a finanziare determinate iniziative o l’attività di determinate organizzazioni non profit. Già la vigente legge sull’imposta di donazione è organizzata in tal senso: prevede che, per certe donazioni, caratterizzate da determinate finalità altruistiche, vi sia il beneficio dell’esenzione totale dall’applicazione dell’imposta in questione.