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 2015  dicembre 07 Lunedì calendario

La storia di un’eroina che vive la religione come una missione. Com’è moderna Giovanna D’Arco

Quando un’opera manca da un teatro da un secolo e mezzo, come Giovanna d’Arco di Guseppe Verdi dal Teatro alla Scala, c’è sempre chi si domanda se l’oblio sia stato giusto e quali furono le ragioni che ne motivarono la scomparsa. Centocinquant’anni sono passati fra l’ultima apparizione alla Scala (1865) e la prima di sant’Ambrogio di oggi. Giovanna d’Arco fu «dimenticata» perché al suo battesimo, nel 1845, non ebbe successo? Nient’affatto, ma l’esito (diciassette repliche, per l’epoca non molte) certamente fu inferiore a quanto Verdi s’aspettava, soprattutto dopo i precedenti trionfi di Nabucco e de I Lombardi, anche se dopo Milano fece un «giro» importante: Roma, Palermo, Napoli, Genova, Torino, Venezia. «L’opera ha avuto un esito felice ad onta di un immenso partito contrario. Ma una cosa è certa: è la migliore delle mie opere senza eccezione e senza dubbio». Questo giudizio, poco obiettivo, fu scritto a caldo dall’Autore al collaboratore-amico Francesco Maria Piave, all’indomani della prima scaligera. Verdi riteneva che la sua sesta opera non fosse stata apprezzata sufficientemente perché vittima di cabale – cosa per altro molto comune al tempo, dove il capriccio di un’altolocata, come, per esempio, la contessa austriacante Giulia Samoyloff, amante del compositore Giovanni Pacini, autore anch’egli di una Giovanna d’Arco, poteva determinare l’esito di una serata (lo spartito di Giovanna d’Arco di Verdi fu prudentemente dedicato alla Samoyloff dall’editore Giovanni Ricordi). La Giovanna d’Arco verdiana non scomparve del tutto dalla Scala: tornò nel ’57 e soprattutto nel ’65 (17 recite), dove protagonista era Teresa Stolz, donna e artista prediletta da Verdi, che per lei scrisse Aida e la parte di soprano della Messa da Requiem. E nel secolo passato quando ci fu la voce «giusta», l’opera ritornò con gran spolvero: nel 1951, anno verdiano del cinquantenario della morte, fu la superba Renata Tebaldi a Napoli e all’Opéra di Parigi; poi fu la volta, nel 1973, della splendida registrazione discografica diretta da James Levine (Warner Classics) con la radiosa Montserrat Caballé; e oggi Anna Netrebko, immortalata in un cd dal vivo (Deutsche Grammophon) al Festival di Salisburgo 2013. Come Pacini, anche Verdi e il suo librettista Temistocle Solera presero a modello la tragedia di Friedrich Schiller, dove la Pulzella d’Orléans muore in battaglia, dopo essere stata accusata di stregoneria dal proprio padre (Giacomo). Nella versione operistica si aggiunge un intreccio amoroso, coll’antistorica passione del Delfino, poi Re Carlo VII, per Giovanna, la quale si mantiene vergine e tutto sacrifica sull’altare dell’Amor di Patria. Il soggetto ben si prestava ad allusioni politiche anti-austriache, quasi a prefigurare la prima guerra d’Indipendenza. All’apertura di sipario un coro molto suggestivo impreca allo straniero invasore: «Maledetti cui spinge rea voglia/ Fuor del cerchio che il nume ha segnato!/ Forse un dì rivarcando la soglia/ piangeranno dell’empio peccato...». Non meraviglia che il poeta Solera, già autore di Va’ pensiero, fosse così patriottico, visto che era figlio di un carbonaro condannato dall’Imperatore d’Austria a vent’anni (ne scontò sette) al carcere dello Spielberg. Come ha sottolineato il maestro Riccardo Chailly, l’impegno corale è uno degli aspetti importanti dell’opera: «Il coro apre l’opera con Qual v’ha speme?, pagina altamente evocativa, ed è quasi onnipresente nell’arco dei quattro atti. Commenta e si emoziona, secondo la tradizione greca. È protagonista come popolo e come armati, con sconfitte e vittorie. In nessun’altra opera precedente c’è una partecipazione così assidua, fra il mistero, la gioia e il compianto. Per non parlare del coro che interpreta le voci, ascoltate da Giovanna, degli “spiriti eletti e malvagi”». Stante il clima emotivo della prima scaligera, forse Chailly non ha voluto tener presente che ancor prima della Giovanna d’Arco Verdi fu chiamato «padre de’ cori» per Gli arredi festivi, Va’ pensiero (basterebbe solo questo), Gerusalemme, Gerusalemme, Oh Signor, che dal tetto natìo, Si ridesti il leon di Castiglia. Non possiamo che concordare con Chaily quando sottolinea come anche in quest’opera abbondino prefigurazioni del Verdi maggiore, e come sia moderna un’eroina che vive la religione come una missione (cosa che può prestare il fianco a messe in scena e interpretazioni «ideologiche») e che in realtà è soltanto una fanciulla coraggiosa e solitaria: al tempo di Verdi Jeanne d’Arc non era né beata, né santa.