Corriere della Sera, 7 dicembre 2015
Verdi scrisse la «Giovanna d’Arco» solo per una questione di soldi
Che Giovanna d’Arco torni alla Scala a distanza di 150 anni dall’ultima volta che vi fu rappresentata è dato che oggettivamente sorprende ben oltre i limiti dell’opera. Che un capolavoro non è di certo, ma nemmeno un titolo così minore del catalogo di Giuseppe Verdi, come la critica ha sentenziato pressoché unanime per lunghi decenni (basti Massimo Mila per tutti). Altri titoli non eccelsi di tal catalogo non hanno subìto infatti un simile, sistematico oblio. La spiegazione di ciò viene resa perlopiù col fatto che i preparativi del debutto non andarono come Verdi avrebbe auspicato e che, conseguentemente, la «prima» sarebbe stata a tal punto non soddisfacente da indurre il bussetano a bandire la Scala dal proprio orizzonte per oltre vent’anni, cancellandola dal novero dei teatri d’opera cui affidare il debutto delle opere a venire. L’oblio della Pulzella d’Orléans suonerebbe dunque come una forma di inconscia ritorsione del teatro nei confronti del «suo» compositore: un trattamento riservato a chi si odia o si ama senza mezze misure. Ma per quanto suggestiva, l’ipotesi è discutibile assai, e lo è ancora di più se si considerano le circostanze in cui l’opera venne partorita e il contesto storico-culturale nel quale prese forma.
Invero, la genesi di Giovanna d’Arco non è documentata quanto lo è di altre opere dello stesso periodo. In particolare, non è ben chiaro a chi debba essere attribuita la scelta del soggetto. Si tende a escludere che fosse di Verdi, in primo luogo perché la vicenda della Patrona di Francia non appare nell’elenco di soggetti che il compositore aveva annotato tra quelli a lui graditi, da prendere dunque in considerazione; secondariamente, è noto che Verdi avesse una spiccata predilezione per soggetti «nuovi», mentre la figura della vergine guerriera aveva ispirato musicisti come Kreutzer, Vaccai e Pacini, la cui opera era andata in scena alla Scala recentemente, nel 1830. Rossini, inoltre, su tal personaggio aveva composto una mirabile Cantata. E sfidare Rossini è cosa che il Verdi della piena maturità, quello di Otello, potrà permettersi di fare; non certo il giovane Verdi di quella stagione. Nemmeno la scelta di Temistocle Solera qual librettista si deve al musicista. Il fatto è che dopo il buon successo di Oberto, conte di San Bonifacio, suo titolo d’esordio, Verdi aveva firmato un contratto con Bartolomeo Merelli, l’impresario che in quegli anni aveva in gestione la Scala e l’Opera di Vienna, che lo costringeva a scrivere tre nuove opere negli anni a venire. Quando lo firmò era manna dal cielo, quel contratto.
Ma dopo il trionfo di Nabucco (1842) e l’ottimo successo dei Lombardi alla prima crociata (1843), gli stimoli a proseguire la collaborazione con quell’impresario un po’ invadente, non del tutto affidabile, con il quale anche Donizetti a Vienna aveva avuto non pochi problemi, iniziarono a scemare. Per di più, nel 1844 aveva debuttato alla Fenice di Venezia (Ernani) e all’Argentina di Roma (I due Foscari), ricavandone ottime soddisfazioni. Insomma, era iniziata a girarsi la frittata nel rapporto tra Verdi e i teatri d’opera. D’ora in poi sarebbe stato lui a scegliere i teatri in cui lavorare, non più viceversa. Alla luce di ciò, sembra plausibile pensare che quel contratto con Merelli era diventato più che altro un peso. E che Verdi, in qualche modo, subì l’operazione Giovanna d’Arco più di quanto non la determinasse. Non scelse il soggetto, non scelse il librettista, non ebbe voce in capitolo nella scelta del cast, formato da un soprano nella fase calante della carriera, da un tenore di valore ma non amato dai milanesi per una presunta simpatia per gli austriaci, e da un buon baritono con un tipo di vocalità piuttosto leggera, non ideale per la parte di Giacomo. Margini di discussione con Merelli, evidentemente, non ve n’erano. Cosicché l’unica forma di protesta che Verdi poté attuare nei suoi confronti fu di non assistere nemmeno alla ripresa dei Lombardi che l’impresario aveva fissato nel mese di dicembre 1844, benché i cantanti fossero gli stessi scritturati per la nuova opera e Verdi avrebbe avuto solo da guadagnarci a «prenderne le misure». Giovanna d’Arco fu composta in quattro mesi. Verdi ne fu soddisfatto, anche se le parole utilizzate per raccontare a Francesco Maria Piave come fosse andato il debutto: «È la migliore delle mie opere senza eccezione e senza dubbio», suonano come difesa a tutti i costi proprio di quell’opera che parte della critica – non tutta, invero – aveva liquidato come «titolo da principiante». E la classica ciliegina su tale torta già non facile a digerirsi fu che Merelli, a insaputa di lui, si accordò con Ricordi per la vendita della proprietà, e dunque dei diritti, del libretto: aspetto questo che toccava un nervo scoperto del compositore che infatti, di lì a poco, avrebbe iniziato (e vinto) una vera e propria guerra a tutto campo per la tutela degli autori di opere artistiche. Conseguenza di ciò fu che Verdi, onorato il contratto con Merelli, di questi e della Scala non ne volle più sapere. Ma è con l’impresario e con il suo teatro che tagliò i ponti, non con la città di Milano. Nei confronti della quale continuò a manifestare in tutti i modi un «affettuoso» (da scriversi tra virgolette, perché l’affettuosità era tratto per niente tipico della personalità verdiana) sentimento di gratitudine. Era Milano la città (anche se in diverse lettere la denomina «paese»!) dove aveva completato il proprio apprendistato.
Era Milano la città in cui ebbe la possibilità di guadagnarsi da vivere suonando, dirigendo e insegnando. Era Milano la città che gli aveva offerto la possibilità di debuttare come operista (a lui che, non osando tanto, aveva messo nel mirino Parma). Era Milano, infine, la città dove ebbe modo di stabilire rapporti con il fior fiore della cultura italiana: nel salotto di Clara Maffei, nell’odierna via Manzoni, transitavano Liszt, Thalberg, Rossini, Balzac, e si riunivano spesso economisti come Carlo Cattaneo, patrioti come Cesare Correnti, scrittori come Massimo D’Azeglio o giornalisti come Carlo Tenca. Qui Verdi conosce editori, scrittori, musicisti o pittori, Hayez in primis. Con «Clarina» e il marito, il letterato Andrea Maffei, resterà sempre in contatto. Non a caso sarà proprio lei, anni dopo, a combinare un incontro tra Verdi e l’altro gigante della cultura italiana, Alessandro Manzoni. Diversamente da quanto si legge in alcune cronache di questi giorni, Verdi ebbe sempre rispetto e considerazione per Milano. E quando si ricrearono le condizioni ideali, non esitò a tornare alla Scala per rappresentarvi i frutti – e quali frutti! – del proprio lavoro. Che fu dunque la vicenda Giovanna d’Arco se non il classico incidente di percorso?