La Stampa, 7 dicembre 2015
Moglie rapita, sposa adultera o prostituta: un saggio ricostruisce i mille destini di Elena di Troia
Forse è morta impiccata a un albero nell’isola di Rodi. Forse ha attraversato i secoli e, trasmigrando di corpo in corpo, per successive reincarnazioni, è diventata una prostituta in un bordello fenicio. O forse abita in un’isola incantata, ai confini del mondo: un paradiso degli eroi, dove è la sposa di Achille e trascorre le notti in un banchetto perenne. Sono solo alcune delle storie che gli autori antichi raccontavano intorno a Elena di Troia. Storie bizzarre e, spesso, in contrasto tra loro. Archetipo della femme fatale, icona di bellezza e di morte, Elena è donna dai molti destini. Per Omero, è l’adultera per eccellenza, la «cagna» che, abbandonando il marito Menelao, provoca la guerra di Troia. Ma altri poeti, da Stesicoro a Euripide, sostenevano che Elena non era mai andata a Troia: gli dei dell’Olimpo avevano dato in ostaggio a Paride solo un suo fantasma, fatto di nuvole e d’aria. Lei, invece, si sarebbe nascosta in Egitto. E lì sarebbe rimasta, mentre sulle rive dello Scamandro scorreva il sangue di achei e troiani, e Achille ed Ettore morivano per un fantasma.
Sacra e adultera
Già gli antichi tentavano di attribuirle una psicologia. Ma Elena non ha una biografia, non è una Madame Bovary dell’età del bronzo: è un fascio di immagini che si rincorrono attraverso i secoli come in un gioco di specchi. Lowell Edmunds, filologo classico e professore emerito della Rutgers University, prova ora a mettere ordine nel caos del mito. Lo fa con un libro appena uscito negli Stati Uniti (Stealing Helen, letteralmente «Rubando Elena», Princeton University Press, pp. 430, $ 49,50) che propone un’ipotesi suggestiva: la figura di Elena si spiegherebbe innanzitutto alla luce del motivo folklorico della «bella moglie rapita».
Scavando in leggende indiane, africane, cinesi, irlandesi, bulgare, e anche in favole italiane già catalogate da Italo Calvino, Edmunds compone una curiosa galleria di spose rubate: tutte donne di bellezza sovrumana, segnate da una nascita straordinaria (come Elena, che secondo il mito era uscita da un uovo), rapite e poi riscattate dai loro mariti con imprese in cui si combinano forza e astuzia. Il motivo è universale e si riflette anche nell’epopea indiana del Mahabharata. Certo, queste leggende non sono del tutto sovrapponibili al mito omerico: non sempre il ratto della moglie si risolve con una guerra come quella troiana. Ma in questa messe di racconti, che fa pensare a un’antichissima tradizione indoeuropea, s’intravede lo schema essenziale della figura di Elena.
Elena sarebbe dunque approdata all’Iliade uscendo da questo mare di racconti. E non, invece, dal mondo arcano di una primitiva religione mediterranea. Si è spesso sostenuto che in origine Elena era una divinità della vegetazione, poi trasfigurata in personaggio dell’epica e in figura romanzesca. Ma le tracce di questa originaria natura divina sono evanescenti. È vero, a Sparta e a Rodi c’erano santuari in cui l’eroina era venerata come «signora dell’albero» o «signora del platano». L’Elena sacra ha però sempre dovuto convivere con il suo doppio, l’Elena adultera. Ad Atene, nel borgo di Decelea, si facevano sacrifici in suo onore. Ma intanto, nel teatro alle pendici dell’Acropoli, i poeti la trattavano da sgualdrina. Nel Ciclope di Euripide, un coro di satiri irriverenti interroga Odisseo, reduce da Troia: «Dimmi, presa la giovane Elena, non ve la siete ripassata a turno, visto che a lei piace avere tanti amanti? Che spergiura! Alla vista di un paio di brache colorate su cosce maschili perse la testa e piantò Menelao, un omino così per bene!». Le brache sono quelle del troiano Paride che, come tutti i barbari, portava i calzoni e non la tunica dei Greci.
L’ennesima maschera
Elena combatte da sempre per uscire dal recinto dell’epopea e del folklore, per trasfigurarsi in sogno metafisico. Le sette gnostiche la consideravano l’incarnazione della Sophía, della Sapienza suprema, imprigionata dalle potenze cosmiche inferiori in un corpo femminile e costretta a subire ogni oltraggio. Simon Mago, leggendario fondatore dello gnosticismo, l’avrebbe cercata per secoli, riscattandola infine da un bordello di Tiro. Poi Elena ha sconfinato anche nel mito di Faust. Come ricorda Edmunds, ben prima di Goethe, la regina di Sparta compare già nella Storia del dottor Faust, mago e negromante, pubblicata nel 1587 da Johann Spies. Qui, davanti a un gruppo di studenti, la domenica di Pasqua, Faust evoca dagli inferi Elena, che appare «in uno stupendo vestito nero e purpureo, gli occhi nerissimi, le labbra rosse come ciliegie».
Il libro di Edmunds si ferma alle soglie del Novecento. Ma si vorrebbe aggiungere ai molti volti di Elena quello delineato dal poeta greco Ghiannis Ritsos nel 1970: il volto di una donna vecchia e stanca, sopravvissuta alla sua leggenda. L’eco delle antiche guerre si è ormai spenta. Ed Elena si consuma nella penombra, tra un armadio e una specchiera, con le verruche che le spuntano sul viso. È il crepuscolo di un mito. O forse è solo l’ennesima maschera dell’inafferrabile Elena.