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 2015  dicembre 07 Lunedì calendario

Intervista ad Andrea Bocelli, che non si è mai montato la testa «perché credo in Dio»

Ventidue anni di ribalta, spesso in vetta alle classifiche dei dischi più venduti, in tutto 85 milioni. Repertorio che nasce nell’opera e sconfina nel pop. Voce morbida e pastosa, ormai firma internazionalmente riconoscibile, cresciuta alla scuola di Franco Corelli. Il tenore Andrea Bocelli, 57 anni, di Lajatico, in provincia di Pisa, è uno dei marchi italiani più noti al mondo, con tanto di certificazione di stella sulla Walk of Fame di Hollywood. Celebrità posta al servizio del sociale: all’ultimo World Economic Forum di Davos, Bocelli ha ricevuto il Crystal Award come riconoscimento all’artista, uomo e filantropo. L’11 dicembre va in onda su Rai1, in prima serata, uno speciale dedicato al suo ultimo album, Cinema, dove il cantante reinterpreta sedici colonne sonore di film ormai leggenda. Si aggiudica così il primato di artista italiano di musica classica con dieci album nella Top Ten UK. La serata, condotta da Massimo Giletti e con Sophia Loren nel ruolo di madrina.
Le piace Sophia Loren come madrina?
«È una donna eccezionale. Durante lo spettacolo le ho detto che ha vinto tanti Oscar, salvo uno, però. Quello della bellezza, peccato che non ci sia. Ha un fascino indescrivibile».
E lei è uno che non resiste alla grazia femminile, non ne ha mai fatto mistero. Ma cosa dice sua moglie Veronica?
«Più che dire, mi sta sempre al fianco. Gli uomini sono pericolosi, quindi non vanno lasciati soli. L’uomo è fragile, è come il vetro: non va in frantumi finché non sbatte contro qualcosa».
Ultimo disco, Cinema. C’è un brano cui è particolarmente legato?
«Li amo tutti, indifferentemente. Li conosco da quando sono fanciullo, li canticchiavo senza sapere che fossero colonne sonore. Poi mi sono reso conto che sono grandi capolavori, degli evergreen, pagine che sono la colonna sonora di pellicole ma anche della nostra vita. Per questo ho voluto raccoglierli, proporli con questi arrangiamenti eccezionali e poi inciderli con sistemi tecnologici avanzati».
Sono pezzi che suonava durante gli anni di piano-bar.
«Sì, quindi è pure un tuffo in quella mia fase un po’ bohémien. Suonavo, e via con gli amici a far tardi».
Poi arrivò il successo. Cosa l’ha aiutata a non montarsi la testa?
«Anzitutto il fatto di essere credente. E poi, grazie a Dio, il successo è arrivato in là con gli anni. Ero adulto. Il guaio è quando la fama ti piomba addosso che hai 18 anni. Montarsi la testa è una forma di demenza giovanile, di grave schizofrenia, un incidente della mente. La demenza senile ti tocca, non ci puoi far nulla, ma quella giovanile va corretta».
Nel 2011 ha creato la Andrea Bocelli Foundation a sostegno delle persone in difficoltà. Dopo aver tanto ricevuto, è scattata la voglia di dare?
«La mia, la sua, la nostra vita è quella di persone fortunate. È come se fossimo a un banchetto, con tanti cibi, siamo lì, seduti, serviti e riveriti. C’è chi sta a capotavola, chi è servito con un occhio di riguardo, ma tutti partecipiamo. Però dietro a questa tavola ci sono persone che non possono mangiare niente. La vita è questa: noi a tavola e dietro schiere di persone che non toccano nulla».
Quindi è nata l’idea di questo progetto.
«Ho proprio avvertito l’esigenza di mettere assieme delle persone, perché da soli non si conclude niente. Cerchiamo di migliorare la vita di qualcuno».
Tra l’altro, la sua Fondazione ha collaborato con il Mit di Boston. E con le università italiane?
«L’idea del Mit è nata da una mia parente che insegna Ingegneria elettronica a Palermo. È stata lei a mettermi in contatto con Boston coinvolgendo anche altri professori di Palermo, quindi il nostro Paese ha partecipato. Spero, in futuro, di contagiare sempre più università italiane».
Lei ha portato in Italia un evento benefico come la Celebrity Fight Night.
«Il senso è quello di un ponte Usa-Italia, ognuno ha una responsabilità e un ruolo. Per esempio, quello organizzativo spetta a mia moglie. La Fondazione è come un figlio: la metti al mondo e crei i presupposti perché a un certo punto cammini con le proprie gambe».
A proposito di figli. Studiano musica?
«I due ragazzi frequentano il conservatorio di Lucca. La bimba è piccola».
C’è differenza fra soddisfazioni raccolte con la Fondazione e con il canto?
«Entrambe sono soddisfazioni che scaturiscono dal fare. Non c’è nulla come il fare che appaghi. Noi siamo creati a immagine e somiglianza di Dio, per questo troviamo gioia nel creare, nel vedere le cose sbocciare e poi crescere».
Fra le creazioni di Bocelli, c’è anche un vino di qualità. Ne è orgoglioso?
«Già mio padre produceva vino. Quando ho iniziato a girare il mondo, ho scoperto i grandi vini, ho imparato a degustarli e riconoscerli. Un giorno dissi a papà: “farò del tuo vino, un grande vino”. Lui rispose che mi stavo montando la testa. Quando è venuto a mancare, mio fratello Alberto ed io abbiamo proprio sentito il bisogno di onorare la promessa. Così, ci siamo rivolti a un enologo straordinario, Paolo Caciorgna. Prendiamo barrique nuove, vi teniamo il vino 22 mesi. Il vino lo fa la terra. L’uomo non può che peggiorarlo, quindi dobbiamo rispettarlo».
Cosa rappresenta una bottiglia di vino?
«Una bottiglia di felicità».
Immaginiamo che sia solo e desideri regalarsi del tempo. Siede al pianoforte: cosa suona?
«I brani di classica che ricordo, Notturni di Chopin per esempio. Poi mi piace tanto improvvisare, assecondando l’umore del momento. Dove sono io, c’è sempre un pianoforte».
A quando il ritorno sulle scene per un’opera lirica?
«Quest’anno, con il direttore d’orchestra Zubin Mehta, abbiamo registrato Turandot e poi Aida, che deve ancora uscire. Credo molto nella registrazione, in questo sono un po’ come Glenn Gould. Registrare altre opere è quello che, in assoluto, mi preme di più. Il palcoscenico dà credibilità all’incisione, ma è quella che rimane per sempre».
Non le piacciono le registrazioni live di un’opera? Lì si combinano le due esigenze.
«Sembra un paradosso, ma per l’opera non c’è ancora un modo di registrare dal vivo che offra la stessa qualità che si ottiene con una registrazione fatta nello studio. Purtroppo il microfono ha bisogno di prossimità, e se ti sposti, come è normale che accada in un’opera, il suono cambia. Sì, ci sono i microfoni ad personam, ma la qualità è bassissima».
Stasera, alla Scala, va in scena Giovanna d’Arco di Verdi. Carlos Alvarez, che sarà Giacomo, dunque padre di Giovanna, ha spiegato che essere padre è determinante per entrare in tanti personaggi verdiani. Condivide l’affermazione?
«L’esser padre arricchisce l’uomo in tutti i sensi, e poiché l’arte è il risultato di quello che siamo, incidono anche questi aspetti della nostra vita cosiddetta privata».
All’indomani di Parigi ha detto che la musica non è per combattenti. In che senso?
«La musica addolcisce l’animo, lo rende nobile. Catone raccomandava di non far ascoltare musica ai soldati altrimenti avrebbero perso lo spirito bellicoso. Mi piace pensare che i nostri figli non vadano in guerra, semmai desiderino la pace e la bellezza. Bellezza e bontà vanno insieme».
Ha cantato per quattro pontefici, cinque presidenti americani, capi di Stato, re. Frequenta il gotha mondiale. Non le manca, talvolta, la normalità?
«Io sono l’emblema della normalità. Vivo una vita normale, nessuno in casa ha la percezione di stare con un cantante famoso. Stasera, per dire, vado a cena con i miei amici di sempre, ci aspetta una scorpacciata di funghi. Faccio quello che fa chiunque, passeggio, vado in giro».
È poi un divoratore di libri. Cosa ha sul comodino?
«In questo momento sto rileggendo dei libri, mi piace tornare su testi già letti perché ci sono aspetti che prima non erano emersi. Ora sto leggendo Le Confessioni di Sant’Agostino e La Repubblica di Platone. Incredibile vedere le intuizioni di quest’uomo, quattro secoli prima della nascita di Cristo».